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A scrivere l’inizio della storia recente di Montevecchio, fu un prete, Giovanni Antonio Pischedda, nativo di Tempio. Attratto dagli affari, seguì il padre a Guspini per commerciare in sughero e pelli.
Qui conobbe, dagli anziani del posto, la ricchezza dei filoni minerari di Montevecchio, e tanto fece che riuscì ad ottenere, nell’ottobre del 1842, un permesso di ricerca e di scavo per 25 quintali di galena, sul filone di Montevecchio. Intuita l’importanza dell’affare comprese che, per far fruttare l’impresa, doveva trovare dei capitali adeguati. Recatosi a Marsiglia ebbe fortuna e trovò presto quattro soci.
Nel mese di giugno dell’anno 1844, era di nuovo a Marsiglia alla ricerca di soluzioni quando incontrò un giovane sardo, dinamico, pieno d’iniziativa e di entusiasmo.
L’ uomo si chiamava Giovanni Antonio Sanna e sarebbe diventato presto il padre fondatore delle miniere di Montevecchio. Intuì infatti che quello delle miniere poteva essere l’affare del secolo. A Marsiglia e a Torino trovò i capitali necessari ad avviare le coltivazioni ed ottenere le concessioni.
Il 28 aprile 1848, il re Carlo Alberto firmò l’atto di concessione perpetua per lo sfruttamento della miniera di Montevecchio che divenne nel 1865, con 1100 operai, la miniera più importante non solo dell’isola ma del Regno intero.
La Montevecchio si distinse, tra l’altro, nell’elettrificazione esterna ed interna della miniera, nell’adozione di nuovi sistemi di perforazione: prima a secco e, quasi subito, di quelli ad acqua che erano meno nocivi per il minatore perforatore. Il maggior riconoscimento per l’innovazione fu dato però ad un dipendente della società, Letterio Freni che, nel dopoguerra, inventò l’autopala.
La miniera chiuse la propria attività nel 1991 dopo un’ultima occupazione dei pozzi da parte dei minatori che, dal pozzo Amsicora, rivendicavano ancora uno sviluppo alternativo.