Quanto mi piacerebbe se a distanza di 76 anni dalla morte di Antonio Gramsci questo grande sardo e grande italiano venisse riscoperto nella sua autenticità, sfuggendo alle acritiche e agiografiche strumentalizzazioni dei suoi presunti eredi e a quelle, ideologiche, dei suoi frettolosi nemici degli anni post-bellici.

Il suo pensiero, la sua vita, le sue intuizioni, i suoi errori, la sciagurata persecuzione del regime fascista e l'abbandono da parte dei compagni dai quali si attendeva atti concreti che favorissero la sua liberazione meritano un'analisi onesta, a tutto tondo, slegata dalla politica attuale ma anzitutto storiografica.

Ad esempio, rileggendo alcune sue lettere dal carcere è impossibile non andare col pensiero (e fare dunque un parallelo) alla parabola di Aldo Moro e ai suoi scritti nei 55 giorni di prigionia brigatista. In entrambi i casi il controllo era duplice: prima quello, formale e invasivo, dei carcerieri e poi quello, subdolo e "purista", dei compagni di partito.

In entrambi i casi i presunti amici cercavano scuse per giustificare e ammantare di "giustizia" il loro disinteresse per la sorte di cervelli diventati improvvisamente troppo ingombranti.