“Vorrei che questo video aiutasse nonni e genitori a riflettere sul fatto che figli e nipoti dovranno fare sempre più valige per sperare in una crescita professionale che oggi l’Isola ti nega prepotentemente”.

E’ forse questa la frase che più mi ha colpito nel corso dell’intervista ad Andrea Balestrino, 30enne cagliaritano, il cui lavoro in una multinazionale che opera nella progettazione, produzione e manutenzione di componenti e sistemi per l'aeronautica civile e militare, lo porta a conoscere posti nuovi, a scoprire luoghi ancestrali e incontrare tanti, ma tanti sardi che hanno lasciato la Sardegna per l’America soprattutto per sfuggire a una disoccupazione certa.

Una frase che ha un richiamo malinconico e un eco stridente. Parole forti, sentite e pronunciate da chi oggi è un emigrato sardo e che dovrebbero far riflettere non solo chi in Sardegna ci vive, ma soprattutto una classe politica troppo poco attenta, sulla scia di quella nazionale, rispetto all’esigenza primaria di creare opportunità di lavoro per trattenere nella propria terra i propri figli.

Andrea ci fornisce forse spunti su cui ragionare attraverso un backstage di un documentario in fase di realizzazione, “La Sardegna che non c’è”, grazie al quale le distanze tra chi è rimasto e chi è andato via si assottigliano notevolmente.

Il tutto fa parte di un grande progetto che Andrea ha in mente e che oggi  ci vuole svelare.

 

Allora, Andrea, quale è la Sardegna che non c’è ?

“È quella che scopri quando vai via. Con la distanza e la nostalgia, ti svegli dal torpore, aguzzi ingegno, spesso apri semplicemente gli occhi e vedi che sull’Isola stiamo sbagliando tutto. Ci manca una visione e un sogno comune, e sopratutto il coraggio e le competenze per crederci. È la Sardegna che non c’è, è quella forte delle proprie meraviglie, orgogliosa di mostrarle, di renderle accessibili. È quella che sta aperta tutto l’anno. È quella consapevole dei propri limiti, del fatto che non sarà l’industria chimica a salvarci dallo spopolamento. Ecco perché bisognerebbe smetterla di parlare per anni di Alcoa, E.on, Eurallumina. Noi siamo qualcos’altro. Siamo quelli che si arrabbiano quando scoprono che in gran parte d’Europa non sanno cosa abbiamo da offrire, perché un buon marketing non lo abbiamo mai fatto. La Sardegna che non c’è si fa rispettare in tema di trasporti; in quanto Isola dovrebbe essere il primo pensiero ogni mattina. La Sardegna che non c è non dice sempre di NO a tutto e tutti, ma sa che lo sviluppo passa per una crescita turistica importante, un compromesso che prima o poi dovremo avere il coraggio di fare.”

Come nasce l’idea del documentario?

“Il lavoro mi porta a viaggiare tanto. L’ idea nacque una sera dello scorso Giugno a Chicago, in trasferta con due miei colleghi. Alla ricerca di un ristorante italiano capitammo per caso a “Volare restaurant”. Appena entrati scoprii che il locale non era semplicemente italiano, ma era sardo e tutto accadde per puro caso. Benito Siddu, il proprietario partito da Villamar 35 anni fa, mi trattò come un suo nipote e non ci fece pagare un dollaro. Non potemmo neppure guardare il menù, cucinarono e basta. Come un invito a cena da un amico di famiglia. Decisi quel giorno che dovevo raccontare quella storia, prenderla come una metafora per spiegare i sardi e la Sardegna. Volevo raccontare tante altre storie che avevo già vissuto o che avrei scovato durante i miei viaggi. È quello che sto facendo.”

Quale è l’aspetto che maggiormente vuoi sottolineare attraverso il documentario?