Una rivoluzione culturale e sessuale che aveva coinvolto gran parte della società italiana, movimenti femministi, un passaggio in Parlamento durato circa due anni: era il 18 maggio del 1978 quando passò, in Senato, il testo definitivo che soppresse le fattispecie di reato previste dal titolo X del libro II del codice penale tramite l'abrogazione degli articoli dal 545 al 555, e le norme di cui alle lettere b) ed f) dell'articolo 103 del T.U. delle leggi sanitarie. Quattro giorni più tardi, in Gazzetta Ufficiale venne pubblicata definitivamente quella che oggi conosciamo, più familiarmente, come 'legge 194'.

Si trattò di una conquista importante per le donne, essenziale per la loro autodeterminazione, in un Paese dalla forte impronta di matrice conservatrice e cattolica. Un passo in avanti che andò incontro a ripetuti tentativi di sabotaggio: lo stesso Papa Giovanni Paolo II, due anni dopo, chiamò a raccolta i fedeli del Vaticano perché si adoperassero per contrastare la neo acquisita libertà di scelta sull'aborto.

Eppure, quello che venne definito già al tempo in un manifesto dell'Unione delle Donne Italiane «un primo strumento», a quasi 45 anni dalla sua approvazione ha portato alla luce diversi problemi, legati sia al contenuto, sia alla sua mancata applicazione, difficoltà che son anche valse all’Italia svariati richiami da parte delle istituzioni europee.

Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”: la legge non sancisce positivamente il diritto all’aborto, bensì si limita a regolamentare i casi in cui l’aborto non è considerato un reato. Non si parla quindi di interruzione volontaria di gravidanza, conseguente alla libera scelta della donna, ma della possibilità che la gestazione non venga portata avanti solo per una serie di impossibilità elencate tassativamente dal Legislatore.

All’articolo 5 troviamo il cosiddetto “periodo di riflessione”, secondo cui, laddove non venga riscontrata l’urgenza, alla donna viene rilasciato un documento che attesta lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta di interrompere la gestazione, e con il quale la si invita «a soprassedere per sette giorni». Al termine dei sette giorni il documento costituirà «titolo» atto a poter procedere con l’intervento. Ma il tempo della riflessione è di fatto un ostacolo per la piena accessibilità alla pratica, che consiste in una prestazione medico-sanitaria e che deve essere fornita in base a criteri scientifici, mentre invece viene delegata alla valutazione del singolo medico. L’OMS inoltre ha più volte ribadito la necessità di assumere i farmaci abortivi o di intervenire chirurgicamente il prima possibile, al fine di evitare di esporre la gestante a ulteriori complicazioni fisiche, prima ancora che psicologiche.

Lo scoglio più grande però, all'applicazione della 194, lo troviamo nell'articolo 9, che consente ai professionisti sanitari l’obiezione di coscienza, valorizzando la libertà di religione e di pensiero, entro precisi limiti. Il testo, occorre premettere, è sempre recessivo rispetto alla necessità di salvare la donna in imminente pericolo di vita, ma anche quando ciò non fosse, l'obiezione è legata alle operazioni strettamente concernenti l’interruzione della gravidanza, e mai l’assistenza sempre dovuta tanto prima che dopo l’intervento. L’articolo impone anche agli enti ospedalieri e alle case di cura autorizzate «in ogni caso ad assicurare» che l’IVG si possa svolgere e delega alle Regioni il compito di controllare e garantire l’attuazione del diritto «anche attraverso la mobilità del personale».

Sulla carta tutto bene quindi. Ma allora, cos'è che sta andando storto?

Stando ai dati raccolti dal Sistema di Sorveglianza Epidemiologica delle IVG, attivo in Italia dal 1980, che impegna Istat, Istituto Superiore di Sanità, Ministero della Salute, Regioni e Province autonome, gli interventi di interruzione volontaria di gravidanza sono calati drasticamente dal 1982, anno del picco massimo, a oggi. Nell'82 infatti si registrarono qualcosa come 234.801 aborti volontari, nel 2016 sono stati 84.926, e nel 2020 66.413 (-9,3% rispetto al 2019).

Secondo il ministero della Salute, i disservizi nel sistema sanitario non c’entrano. Nell’ultima relazione annuale al Parlamento sull’attuazione della legge 194, è stato spiegato che le interruzioni di gravidanza sono state sempre regolarmente garantite.

Posto che le donne con titolo di studio più basso presentano valori di abortività più elevati in tutte le generazioni, dimostrazione del fatto che il livello di istruzione è risultato fortemente collegato al ricorso all'IVG, con un empowerment femminile che si è dimostrato uno strumento assai efficace nel condurle verso scelte riproduttive più consapevoli, i dati però mostrano anche un altro aspetto della realtà, più che preoccupante: il numero degli operatori obiettori è cresciuto esponenzialmente.

Nel 2018 i ginecologi che si rifiutavano di praticare le interruzioni di gravidanza erano il 70,9%, contro il 58% del 2005.

Nel 2019 la percentuale di obiettori aveva raggiunto l'82,8%.

Il che significa, numeri alla mano, che due specialisti su 10 sono disponibili.

Moltissime donne chiedono che la legge sia rispettata, ma la 194 sarà rispettata, secondo le tante associazioni umanitarie, solo se: ogni Regione garantirà un adeguato numero di  medici non obiettori e di ambulatori per Ivg; si fornirà un’adeguata formazione e diffusione delle nuove terapie anticoncezionali; si garantiranno informazioni complete sull’aborto al netto di opinioni personali; si renderanno obbligatori corsi di formazione del personale sanitario; si assicurerà un percorso obbligatorio nelle scuole per l’ideazione di progetti sull’affettività e sulla vita sessuale.