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Bisognerebbe bandire gli anniversari. Ricordare un grande artista solo perché in quella data gli è capitato di nascere o di defungere, è irriguardoso nei suoi confronti. Chi scrive vorrebbe avere a disposizione il tempo (e pure i fondi) per organizzare delle rassegne di film d’essai. Se mai questa circostanza dovesse verificarsi, prometto solennemente che le mie proposte saranno random, spiazzanti, inaspettate: gli amanti vera della settima arte hanno bisogno di questo, mica di un calendario in cui segnarsi i dati biografici di registi o attori.
Comunque, a che pro questa premessa? Perché il 31 ottobre del 1993 si è spento, all’età di 73 anni, il più grande tra i Maestri: Federico Fellini. Sono dunque vent’anni tondi che il creativo riminese ci ha lasciato.
Sarà retorico forse sottolinearlo, però è la verità, pazienza se prende i contorni della retorica: i suoi film sono tutti lì, a disposizione di chi desidera accostarvisi; gioiellini da vedere e rivedere, destinati a rimanere per sempre.
Rai Movie oggi gli dedica un’ampia rassegna. Chi lo ama non vede l’ora di assaporare ancora una volta l’universo visivo di un Genio; chi non lo ha ancora scoperto ne approfitti, si accorgerà di persona che –come si usa dire nel gergo giovanile- Fellini è “tanta roba”.
Unico, e non è un’esagerazione: semplicemente, il suo cinema è un esemplare non replicabile.
Fa benissimo Paolo Sorrentino a insolentirsi quando qualcuno lo paragona a cotanto modello. “Federico è una cosa a parte”: questo dice a tutti quei giornalisti che, in vena di semplificazioni, hanno accostato La grande bellezza a La dolce vita. E figuriamoci ora che il film verrà scoperto dagli americani. Tre cose gli yankee conoscono di noi italiani: gli spaghetti, la Ferrari e Fellini. Vedrete che i recensori statunitensi, dopo aver visto il capolavoro di Sorrentino, titoleranno: “The great beauty, Sweet life part II”. O qualcosa di simile.
C’è chi invece, come Ettore Scola, è molto più sobrio. Che strano chiamarsi Federico, film uscito nelle sale il mese scorso (in Sardegna è passato appena di sfuggita, peccato), è un omaggio fatto come si deve. Eppure, apparentemente erano così diversi tra di loro. Mai lasciarsi ingannare dalle apparenze: Scola –che conosceva benissimo Fellini, erano amici e confidenti- ha capito che ciò che a prima vista poteva sembrare culto dell’effimero, della leggerezza, del disimpegno (il circo, le donne prosperose, la nostalgia della provincia) in realtà era cinema impegnato, che si contraddistingueva per un profondo rigore morale e una piena consapevolezza del significato ultimo della vita e della morte.
Fellini, insomma –questo è quello che ha voluto farci capire Scola- era una persona molto lucida, che volutamente aveva scelto di osservare la realtà col filtro della fantasia. Perché gli sembrava la maniera più onesta, nei confronti del pubblico e di se stesso. In un’epoca in cui bisognava essere per forza o bianchi o neri (ma anche oggi in fondo è così, non è cambiato poi tanto) lui aveva intuito che la realtà è fatta di infinite sfumature. Ed era bello utilizzare la macchina da presa per raccontarle, queste sfumature.<