Completamente nuda, con una catenina con la Madonna al collo, un orologio al polso, una ferita vicino al cuore inferta con un cacciavite a stella, un ferro da calza o uno spillone, e numerose ferite alla nuca: così fu trovata, il 7 luglio 1989, Gisella Orrù, il cui cadavere giaceva in fondo ad un pozzo-sifone della rete di irrigazione, profondo 11 metri, nelle campagne di San Giovanni Suergiu, vicino a Carbonia, città di cui la ragazzina era originaria.

Gisella aveva solo 16 anni quando venne brutalmente assassinata e il suo caso, ancora non completamente risolto, destò scalpore in tutta la Sardegna, ma ebbe un grande risalto anche in ambito nazionale.

Una storia di innocenza adolescenziale cancellata troppo in fretta, una bellezza che non passava inosservata e una violenza adulta priva di scrupoli che purtroppo probabilmente non è stata punita.

Perchè Gisella, di cui si erano perse le tracce il 28 giugno precedente, non si trovava di certo con suoi coetanei la sera in cui aveva partecipato, secondo alcune fonti mai accertate, ad un festino a sfondo sessuale in spiaggia, dopo aver assunto alcol e mangiato carne e patate, anche se non si sa ancora precisamente dove e con chi.

Dopo il macabro tentativo di violenza sessuale, era stata uccisa in un modo quasi chirurgico, da qualcuno che sapeva bene come evitare una copiosa fuoriuscita di sangue. L’arma del delitto non fu mai ritrovata, così come i vestiti della ragazzina.

Gisella frequentava l’Istituto Tecnico Commerciale “Angioy” e abitava con la nonna paterna Gina e la sorella minore Tiziana, affidatele dopo al separazione dei genitori. Il padre, Gisello, abitava vicino a casa loro.

I FATTI. La sera del 28 giugno l’adolescente era uscita per la solita passeggiata con le amiche ma non rincasò alle 21,30, orario prestabilito dalla nonna: non ci tornò mai più. La signora Gina, preoccupata, mentre l’aspettava si affacciava continuamente dalla finestra e si accorse che un suo vicino di casa, Salvatore Pirosu, manovale ultra 40enne, stava rincasando.

Pirosu era “uno di casa” per Gina: ogni tanto le faceva commissioni, si offriva di accompagnare in macchina sia lei che Gisella (la ragazzina lo chiamava “zio Tore”) a fare spese, alle feste di paese ecc.., quindi la nonna non esitò ad esporgli la sua preoccupazione chiedendogli di portarla subito dal figlio, padre di Gisella, a pochi metri da casa sua.

Gisello, forse per la stanchezza, non diede troppo peso al fatto che la figlia non fosse ancora rincasata e disse a sua madre: “Se domani mattina non sarà ancora tornata, si farà la denuncia”.

E così fece Gina che, proprio la mattina seguente, ricevette una misteriosa telefonata a casa da parte di sconosciuti, un uomo e una donna, che le dissero: “Gisella è in vacanza con noi”. A Iglesias, dove viveva la nonna materna della ragazzina, arrivò una telefonata simile.

Il padre della ragazzina girò durante quelle calde giornate estive piene d’angoscia per tutti i luoghi in cui i giovani del Sulcis erano soliti accamparsi in estate: Carloforte, Portoscuso, Teulada, ma di Gisella nessuna traccia.

Intanto nella cittadina, nota fino ad allora solo per le lotte dei minatori e che poi rimbalzò sui Tg nazionali, si fecero strada, nonostante lo shock, i pettegolezzi: ognuno si sentiva autorizzato a dire la propria, anche dopo il drammatico ritrovamento e il riconoscimento del cadavere. Si parlò anche di una “doppia vita” di Gisella e di un giro di prostituzione minorile nella città mineraria.

Vennero quindi interrogati dalla polizia gli amici di Gisella, in particolare la sua amica del cuore Natascia, ma nessuno disse di conoscere eventuali disagi della vittima. Gli amici che erano con lei quella sera asserirono che Gisella ai tavolini del bar non avesse consumato nulla, mentre la sorella minore disse che prima di uscire avesse mangiato uno yogurt alla frutta. Ma l’autopsia rivelò che Gisella, poche ore prima di morire, avesse mangiato carne e patate.

Dal diario personale della 16enne saltò fuori che era invaghita di un certo Massimo, che aveva salutato assieme ad altri amici quella maledetta sera del 28 giugno in via Napoli prima di imboccare viale Asproni, e che fosse particolarmente insofferente alla troppa rigidità delle regole di nonna Gina. Nonostante questo particolare, la sera della sparizione, Gisella, a dire degli amici, non sembrava particolarmente ansiosa di rincasare come altre volte, quasi come se fosse una preoccupazione non esistente in quel determinato giorno.

Nella stessa maledetta notte, un pastore 40enne, Angelo Canè, venne ucciso e gettato in mare a pochi passi da dove sarebbe stata trovata morta Gisella. Forse aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere?

Inoltre, solo un mese prima della scomparsa della ragazzina, Liliana Graccione, 16 anni, compagna di scuola di Gisella, si era tolta la vita bevendo stricnina, potente veleno usato per debellare topi, e solo dopo si venne a conoscenza del fatto che avesse incontrato qualche tempo prima due adulti con la scusa di comprare biancheria intima e che invece probabilmente l’avessero ricattata. A completare il quadro, pochi giorni dopo la scoperta del corpo nel pozzo, Sabrina, 16 anni, anche lei di Carbonia, ingerì candeggina nel tentativo di togliersi la vita.

Proprio Sabrina tirò in ballo un certo Franco Loddo, macellaio con alle spalle diversi precedenti penali che era stato visto passeggiare con Gisella, ma che, una volta interrogato, sembrava non avesse nulla a che fare con l’omicidio, grazie ad un alibi di ferro.

Intanto continuarono ad arrivare telefonate misteriose da parte di una donna la cui identità non venne mai svelata, che davano indizi sulla vicenda, a volte veritieri e altre no, per depistare le indagini.

LE INDAGINI E LA CONFESSIONE. Il pubblico ministero Alessandro Pili, insieme all’allora giudice istruttore Sandro Lener, indagarono sui possibili collegamenti tra i misteriosi eventi, mentre l’autopsia determinò che la morte di Gisella fosse avvenuta presumibilmente il giorno stesso della scomparsa.

Vennero sentiti tutti i conoscenti di Gisella e proprio lo “zio Tore”, insospettabile vicino di casa, fece una confessione dopo aver descritto Gisella “di facili costumi, molto provocante e che girasse spesso nuda per casa”, incolpando del festino a luci rosse finito nel sangue Licurgo Floris, non ancora quarantenne, con la fama da duro, Giampaolo Pintus, poco più che trentenne e dipendente da eroina, e sé stesso, specificando però di aver avuto nella vicenda solo un “ruolo marginale”.

A questi nomi si aggiunse quello di una prostituta 21enne, Gianna Pau, detta "Jeanette", in un contesto come quello di Carbonia dove si raccontava che personaggi facoltosi organizzassero festini a base di droga e sesso nelle loro sontuose ville, dove non mancavano orge con scambi di coppia e giovanissime ospiti, alcune minorenni.

Pirosu raccontò di aver prelevato Gisella con un pretesto e di averla accompagnata nel boschetto prossimo alla spiaggia, in località Matzaccara, dove gli altri due uomini avrebbero tentato di avere rapporti sessuali con lei. Gisella li avrebbe respinti fuggendo via nuda, allora i due, nudi a loro volta, l’avrebbero inseguita, colpita alla testa e poi finita con una stilettata al cuore. Pirosu e Gianna, secondo la ricostruzione, non avrebbero preso parte all’omicidio, per occultare il quale gli stessi assassini avrebbero guidato nudi per 8 chilometri prima di scaraventare il corpo nel pozzo.

In quattro finirono in manette ma il padre di Gisella non credette che la figlia potesse mai girare con due “rubagalline” come Floris e Pintus. "Sono convinto che Salvatore Pirosu ha venduto mia figlia a qualcuno in grado di garantirgli i soldi e un posto di lavoro" disse Gisello Orrù al processo di primo grado a Cagliari, nel marzo 1991.

Gisello era assolutamente convinto che l'omicidio fosse avvenuto con altri protagonisti, in un posto diverso, forse in una casa, da quello indicato da Pirosu.

La sorella minore della studentessa uccisa, al processo, dichiarò che Pirosu una volta le aveva messo le mani addosso, mentre l’amica del cuore di Gisella riferì che costui, quando accompagnava le ragazzine in macchina, sistemava lo specchietto retrovisore in modo da sbirciare le sue gambe, soprattutto quando indossava gonne corte.

UNA VERSIONE CHE NON QUADRA. Sottoposta a verifica, la versione di Pirosu non quadrava: quando i carabinieri lo accompagnarono sulla scena del crimine da lui indicata, alla stessa ora, l’uomo si accorse che la visibilità fosse completamente assente, e che nel buio non fosse minimamente possibile neanche camminare tra i rovi, figurarsi correre inseguendo una ragazzina. Il tratto di strada da percorrere fino al luogo dell’occultamento poi, era abitato e popolato soprattutto la sera, quindi guidare nudi con un cadavere grondante sangue nel bagagliaio sarebbe stato impensabile.

Gli stessi esami scientifici confermarono l’inconsistenza di quella versione. Nei capelli di Gisella non venne trovata traccia di sabbia nel luogo indicato, e nel suo stomaco erano presenti tracce di un pasto che si consuma a tavola. Dunque qualcuno, verosimilmente Pirosu, doveva aver portato Gisella a cena in un posto che lei riteneva sicuro. Lì qualcosa è sfuggito di mano, forse Gisella si è ribellata a un tentativo di violenza e per questo è stata giustiziata con un oggetto affilato e sottile, poi scomparso nel nulla.

Di questa versione era praticamente certo l’avvocato di parte civile, Michele Schirò: “Non credo che il livello di coinvolgimento sia di personaggi come Licurgo Floris. Si parla di notabili che da tempo avevano messo gli occhi su quella bella ragazza”. Che Salvatore Pirosu avesse messo in mezzo delle persone per proteggerne altre “più importanti e in vista” a Carbonia?

LE CONDANNE. Tre gradi di giudizio condannarono Pirosu e Floris, che continuerà ostinatamente a proclamare la sua estraneità ai fatti, mentre venne stralciata la posizione di Pintus che morì di AIDS poco dopo, e della Pau. Nelle aule giudiziarie il caso finì lì, ma per gli avvocati di parte civile le cose sono andate diversamente da come racconta "zio Tore".

Nonostante i dubbi, i due soli condannati sconteranno la loro pena. Licurgo Floris, dopo aver proclamato per 18 anni la sua innocenza, morì suicida nel 2007, nel carcere Buoncammino, impiccandosi con la cinghia della sacca in tela che conteneva le sue cose personali a una delle sbarre più alte della finestra della sala transito, dove vengono provvisoriamente incamerati i detenuti in fase di trasferimento.

Pirosu è invece uscito dal carcere in anticipo grazie all’indulto. Trasferito in una casa famiglia, a Iglesias, scomparse pochi giorni dopo la scarcerazione: voci di paese dicono che sarebbe stato “fatto scomparire” dagli assassini di Gisella, secondo altri sarebbe semplicemente sparito con l’“incasso” promesso per essersi preso la colpa di quel delitto, o sarebbe vittima dei suoi continui “vuoti di memoria”.

L'EPILOGO. La storia di Gisella rimane oggi un mistero irrisolto: sicuramente le indagini sarebbero potute essere svolte in modo più approfondito: anche se è vero che 33 anni fa non esisteva la tecnologia di oggi, perché non si è mai risaliti all’utenza da cui partiva la chiamata alla nonna, e quelle ai vigili e ai carabinieri, che davano indizi più o meno veritieri? Eppure la polizia possedeva già delle apparecchiature per rintracciare i telefono cellulari.

Come riportano il racconto e l’analisi del giornalista Paolo Matteo Chessa, autore del libro “Gisella. Una verità in fondo al pozzo”, che ha ispirato gran parte delle riflessioni per questo articolo, Luciana Cogoni, vedova di Licurgo Floris e infermiera professionale, continuerebbe tutt'ora a ripetere che il marito è morto in carcere da innocente e che lei lotterà sempre assieme ai loro figli per far sì che ciò venga dimostrato.

Gisello Orrù invece ha lasciato la Sardegna da oltre 20 anni e vive in Friuli dove prosegue la sua vita senza aver mai smesso di pensare a sua figlia, con la convinzione che qualche colpevole sia purtroppo rimasto nell’ombra.

Si spera sempre, inoltre, che chiunque conosca la vicenda dica tutto ciò che sa in modo da permettere ad una ragazzina, brutalmente uccisa prima di affacciarsi alla vita, di riposare finalmente in pace. Del caso, approdato anche a "Chi l'ha visto?", aveva parlato anche Sardegna Live tre anni fa (LEGGI L'ARTICOLO).