Alle 3.37 della notte appena trascorsa il boss dei boss Totò Riina ha cessato di vivere nel reparto detenuti del carcere di Parma.

Il "capo dei capi" aveva 87 anni e ad essergli fatali sono stati due interventi chirurgici in seguito ai quali era finito in coma. Il ministro della Giustizia Orlando aveva concesso il permesso a figli e moglie di essere al suo capezzale. 

Riina, sottoposto al rigore del 41 bis da ben 24 anni, era considerato tuttora il capo indiscusso di Cosa nostra. Totò "U curtu" stava scontando 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del '92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino e quelli del '93, nel Continente.



DA 24 ANNI ERA L 41 BIS, MA RESTAVA IL CAPO DI COSA NOSTRA 

''Lo faccio finire peggio del giudice Falcone. Lo farei diventare il tonno buono''. Era il dicembre del 2013 e il boss mafioso Totò Riina chiacchierava in carcere con un altro detenuto, durante l'ora di socialità. Il destinatario di quelle minacce di morte era il pm antimafia Nino Di Matteo, allora sostituto procuratore a Palermo e oggi pm della Direzione nazionale antimafia.

Un tarlo fisso, quello di uccidere il pm Di Matteo, per il boss di Corleone, arrestato il 15 gennaio del 1993 a Palermo dopo quasi un quarto di secolo di latitanza e morto alle 3.37 di questa notte nel reparto detenuti del carcere di Parma. Ma non era l'unica minaccia a distanza inviata a Di Matteo.

Sempre dal carcere erano arrivati diversi 'siluri' al magistrato, oggi il più scortato d'Italia. "Organizziamola questa cosa - sussurrava con tono deciso - facciamola grossa e non ne parliamo più, perché questo Di Matteo non se ne va. Dobbiamo fare un'esecuzione come quando c'erano i militari a Palermo", aveva detto al suo commilitone in un'altra conversazione intercettata in carcere. Nell'estate 2017, dopo un ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute, i legali di Riina avevano chiesto al Tribunale di sorveglianza di Bologna il differimento della pena. Richiesta bocciata. Pochi giorni prima, durante un'udienza del processo sulla cosiddetta 'trattativa' tra Stato e mafia, era stato lo stesso pm Di Matteo a non credere alle gravi condizioni di salute di Riina e a ribadire in aula: ''Totò Riina è perfettamente lucido''.

Negli ultimi mesi il Capo dei capi era apparso prima sulla barella e poi, più di recente, aveva rinunciato a presenziare alle udienze del processo trattativa. Ma Di Matteo aveva ribadito: ''Riina è lucido e orientato nel contesto.

Abbiamo depositato in segreteria la relazione di servizio di un agente penitenziario su alcune esternazioni in carcere del boss. In concomitanza dell'udienza del 30 marzo scorso del processo sulla trattativa Stato-mafia, Riina aveva parlato dei rapporti tra Ciancimino e Licio Gelli, dei suoi rapporti con Provenzano e della morte dell'ex vice del Dap, Francesco Di Maggio'', aveva detto nel corso del dibattimento il pm Nino Di Matteo. Neppure la malattia ha mai scalfito il boss mafioso, considerato fino a ieri il numero uno di Cosa nostra. Pochi mesi fa, Riina, intercettato mentre parlava con la moglie, Ninetta Bagarella, aveva detto: "Io non mi pento ... a me non mi piegheranno".

''Mi posso fare anche 3000 anni, no 30 anni", aveva detto ancora, per dimostrare la sua forza vitale. A gennaio, il capo dei capi si era anche detto disponibile a rispondere alle domande dei pubblici ministeri; poi, qualche giorno dopo, ci ripensò. Nei mesi corsi il capo dei capi si era anche detto disponibile a rispondere alle domande dei pubblici ministeri; poi, qualche giorno dopo, ci ripensò e non se ne fece più niente.

Una vita all'insegna della violenza, quella di Totò Riina. E della latitanza. Vissuta sempre, o quasi, con la sua famiglia. Fino al giorno del suo arresto, in via Bernini, in una fredda giornata invernale, il 15 gennaio 1993. Di lui, poco tempo fa, due mafiosi, intercettati, dicevano: ''Se non muoiono tutti e due, luce non ne vede nessuno".

E il riferimento era per Riina e Provenzano. In altre parole, con Riina in vita sono state bloccate tutte le 'promozioni' in Cosa nostra. Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta 'strage di Viale Lazio', che doveva punire il boss Michele Cavataio.

Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel "triumvirato" provvisorio di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. 

Riina ha scontato 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del '92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino e quelli del '93, al Nord Italia. E alle 3.37 si è spento portando con se nella tomba tutti i segreti e i misteri della Cosa nostra degli ultimi 50 anni.