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"Io sono arrivata in ospedale in fin di vita. In ambulanza, in pronto soccorso e poi subito in sala operatoria. Era il secondo lockdown, Capodanno del 2021. Ero in condizioni di semi incoscienza, convinta di morire e coi medici convinti che sarei morta. Quando mi sono ripresa e sono uscita, quando è arrivata la diagnosi del tumore era una buona notizia, perché avevo ancora tempo, perché non sarei morta in terapia intensiva". Michela Murgia si confessa a tutto tondo a Vanity Fair, nel numero da domani in edicola diretto dalla scrittrice sarda. Dalla sua rivoluzione dell’amore al suo passato, dal difficile rapporto con il padre alla sua famiglia queer fino al racconto della sua malattia e ai pensieri sulla morte, che non le fa paura.
"Non ho provato rifiuto - racconta l'autrice di 'Accabadora'- quella notizia non voleva dire cancro, voleva dire tempo. Non ho paura della morte. Ho paura del dolore. Naturalmente parliamo della morte mia. Se si ammalasse uno dei miei figli, non sarei così serena". Murgia spiega le sensazioni che accompagnano il suo percorso: "Sono su una soglia. Da un lato l’amore che sperimento della mia famiglia è una condizione di beatitudine forte. Io mi sveglio pensando: che culo! O meglio: ci sono dei momenti di ateismo in cui dico che culo e momenti in cui dico grazie Dio! È un dono fantastico, sto facendo le cose che volevo, sto amando le persone che ho voluto, ho scritto i libri che ho voluto".
Murgia svela il suo approccio 'in positivo': "Quanti possono dire 'Tutto quello che volevo fare, l’ho fatto'? Se oggi mi dicessero 'Cos’è che vuoi ancora fare?' L’ultima cosa è andare in Corea del Sud a incontrare i Bts (gli artisti più venduti in Corea del Sud, con oltre 44,9 milioni di dischi fisici venduti dal loro esordio, ndr). Probabilmente non ci andrò, ma i Bts verranno a me. Non si può sapere. È l’ultimo desiderio dei desideri, come nella Storia infinita quando ti rimane l’ultimo da esprimere e non trovi più la strada per tornare a casa. È forse giusto che rimanga non soddisfatto".