Svolta nel caso Alpi-Hrovatin. A quasi ventuno anni dall’uccisione della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, suo operatore, le indagini si riaprono e si accendono nuovamente le tante polemiche che da sempre accompagnano la vicenda. I due reporter furono uccisi a Mogadiscio in Somalia mentre indagavano su oscuri traffici d’armi e di rifiuti tossici illegali, durante la guerra civile somala. Dopo la puntata di “Chi l’ha visto?” mandata in onda il 18 febbraio, il caso è tornato al centro del dibattito pubblico e la Procura di Roma ha ripreso le indagini.

In quella puntata è stata trasmessa un’intervista a Ahmed Ali Rage, detto il Jelle, supertestimone nel processo per l’uccisione della Alpi e di Hrovatin. Divenuto irreperibile da anni, il Jelle ha confessato ai microfoni della trasmissione di aver mentito accusando del duplice omicidio un innocente, Hashi Omar Hassan, l’unico colpevole riconosciuto che era arrivato a Roma per testimoniare sulle presunte violenze dei militari italiani ai danni della popolazione somala. Ma accusato, processato e condannato definitivamente in cassazione nel 2002 a 26 anni di carcere, Hassan ancora oggi sconta la sua pena nel carcere di Padova.

Jelle ha dichiarato: “Gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e in cambio di una mia testimonianza mi promisero una somma di denaro e mi dissero che avrei potuto lasciare la Somalia”. Attualmente il Jelle è accusato di calunnia, e il 20 febbraio a Roma si è svolta la prima udienza del processo, ma a porte chiuse.

 

Le indagini e la mancanza di trasparenza

D'altronde, questa faccenda è sempre stata poco chiara. Vent’anni di polemiche, accuse, depistaggi, dubbi e lacune. Facciamo un passo indietro. Nel dicembre 1992 l’ONU decise di intervenire in Somalia con una missione internazionale di pace che sarebbe dovuta servire a portare la pace in quel territorio devastato dalla guerra civile. Anche l’esercito italiano partecipò alla missione “umanitaria”.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin , che in quegli anni si trovavano in Somalia come inviati del Tg3, probabilmente scoprirono un traffico internazionale di veleni, di rifiuti tossici e radioattivi che venivano prodotti nei Paesi industrializzati e poi, in cambio di tangenti e armi scambiate con i gruppi politici locali, portati nei Paesi poveri dell’Africa.

Ma durante le indagini la Commissione non ha approfondito la possibilità che l’omicidio dei due giornalisti possa essere stato commesso per le informazioni che la Alpi aveva raccolto sul traffico d’armi e scorie tossiche, fatti che avrebbero coinvolto anche personalità della politica italiana. Inizialmente si era pensato ad un tentativo di rapina o ad un sequestro fallito, ma anche ad una vendetta da parte di un gruppo armato somalo per i trattamenti che l’esercito italiano aveva riservato alla popolazione locale, infliggendo violenze e torture.

Sono rimaste in sospeso molte incognite di quegli anni: per esempio, nel novembre 1993, sempre in Somalia, era stato ucciso il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di rifiuti nel Paese africano. 

 

Gli oggetti personali mai restituiti alla famiglia

La serie di inspiegabili “stranezze” è ormai lunga. Anche i bagagli dei due inviati, giunti a Ciampino con i cadaveri, sono stati consegnati alle famiglie senza sigilli. Inoltre, dei cinque block notes appartenuti a Ilaria solo due sono stati consegnati ai genitori.

Perchè? Quali informazioni contenevano quegli appunti? Ma la lista non finisce qui: ai genitori di Ilaria Alpi non sono stati consegnati nemmeno l’elenco degli effetti personali della giornalista, il certificato di morte redatto dalla compagnia mortuaria privata americana (dove i cadaveri vennero portati dopo l’uccisi