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In copertina: Don Enrico Murgia insieme a Papa Francesco. Foto scattata nel 2015 a Roma, durante il periodo da seminarista
Don Enrico. Ci può parlare della telefonata che ha ricevuto domenica scorsa?
“Mi trovavo in macchina fermo al semaforo sulla 554 mentre mi dirigevo in parrocchia. Erano le 17 in punto. Mi chiama un numero privato al quale generalmente io non rispondo, ma in macchina faccio eccezione per tutti. La voce di chiunque mi tiene compagnia. Da prevenuto, ho pensato fosse qualche call center, o comunque qualcuno che come ogni tanto capita, chiamasse dall’estero per propinarmi qualcosa. Invece no. Ammetto e riconosco di essermi sbagliato alla grande. “Buonasera, sono Papa Francesco, don Enrico?” Giusto un attimo di silenzio, per poi dire “Sì, sono io Santità. Buonasera”. La voce, il tono era il suo. Non mi sono sbagliato, perché mi ha ripetuto e citato alcune cose già scritte nel telegramma arrivato il venerdì precedente alla comunità per conto della Segreteria di Stato. Normalmente, questo capita in occasione di anniversari importanti, e io ho semplicemente chiesto questo, un pensiero e un ricordo, mai però avrei pensato che mi telefonasse direttamente il Papa, in occasione dei cinquant’anni dalla fondazione della comunità parrocchiale. Cinque minuti intensi, in cui a parlare è stato prevalentemente lui, perché io ho solo balbettato. Mi ha chiesto dove fosse Quartucciu e mi ha parlato di una giovane comunità da voler bene e incoraggiare indicandomi espressamente le priorità: bambini, famiglie, giovani, poveri e ammalati. Io sono riuscito a malapena a dire che sono parroco da appena quattro mesi, e che questa giovane comunità mi ricordava la mia di origine poco più giovane.”
C’è una parola utilizzata da Papa Francesco che più l’ha colpita?
“Più che una parola, è stata una vera e propria raccomandazione, che io ho colto come un augurio per me. “Mi raccomando, sii pastore per il popolo e non chierico di stato”. Un’espressione che rientra perfettamente nello stile di Papa Francesco.”
Una volta chiusa la telefonata, qual è stata la prima persona a cui ha chiamato per raccontare quanto successo?
“Il mio Vescovo. Gli ho solo inviato un messaggio, poi mi ha richiamato lui per raccontargli com’è stata letteralmente stravolta la mia domenica. Al mio vescovo, dopo aver raccontato la telefonata ho detto quanto chiesto al Papa nei saluti finali: “Santità, posso riferire alla comunità della sua telefonata?”. “Certo, assolutamente sì, anche la mia benedizione. Prima però chiama il tuo Vescovo, salutalo da parte mia, digli che ti ho chiamato e chiedi a lui quando e come dirlo”. Così ho fatto. Il Vescovo mi ha detto di chiamare mia mamma e poi di farlo sapere alla comunità. Da allora, la notizia che mi avesse telefonato il Papa è sfuggita di mano.”
Come ha raccontato di questa telefonata ai suoi giovani?
"Domenica sera l’ho detto a due di loro, prima di raccontarlo a Messa, ma grazie a Dio c’è chi il giorno, in preparazione ai 50 anni della parrocchia, ha presieduto la Messa. Io non ero in condizioni, la notte non ho dormito. Tante domande, tante curiosità e tanta gioia da parte loro, insieme alle loro battute, perché ogni volta che mi chiamano mi dicono di essere Papa Francesco."
Da quattro mesi è il parroco di San Pietro Pascasio, a Quartucciu, che comunità ha trovato?
"Concilio, o perlomeno tento di farlo come meglio posso accanto all’impegno della segreteria del mio Vescovo. Come ho detto recentemente, è una comunità partecipe, coinvolta nel prendere parte al cammino di tutti e tutta la comunità se ne fa carico. Ciò spiega, grazie al lavoro appassionato di chi mi ha preceduto il perché di uno sguardo ampio, mai statico, mai fermo proprio verso quelle priorità indicate da Papa Francesco quella domenica pomeriggio. Questa, l’impressione dei primi quattro mesi. Mi sento in frontiera con le gioie e le croci che metto in conto, perché mandato e inviato ad “essere” e solo dopo a “fare” il prete tra la gente e per la gente. La cosa più bella che potesse capitarmi. Ci stiamo conoscendo, so di essere “studiato” dai miei parrocchiani, ma è altrettanto vero il contrario. Mi lascio accompagnare dalla buona fama che la precede fin dal giorno in cui ho saputo di arrivarci come parroco. Mi piace la sua accoglienza, intelligente, umana, piena di quella simpatia che relativizza i problemi e permette di affrontarli senza l’inganno dell’enfasi o la rigidità dell’ideologia.
Riflettevo che la forma della nostra chiesa, rimanda ad una tenda, e la nostra personale e comunitaria deve essere sempre itinerante, prossima a piazzarsi lì dove, ripetendo un’espressione del Santo Cottolengo, la Carità urge di più. La priorità quindi all’ascolto, al racconto di questi 50 anni: come stiamo, come cambiamo anche in tempi difficili come questi. Dove e verso chi andiamo realmente? Non a parole, ma con i fatti, senza scoraggiarci. In questo, la catechesi che sperimentiamo come inedita è assolutamente maestra. È di fatto, insieme alle celebrazioni uno degli strumenti che dicono il bisogno antico e sempre nuovo di conversione per tutti: cominciando da me. Parafrasando il nostro Arcivescovo, lavoriamo “senza fretta e senza sosta”, perché ringraziando Dio per quanto già vissuto e sperimentato, il nostro cammino si apra, verso ciò che proprio Papa Francesco definisce “sorprese di Dio”.
A maggio 2018 è arrivata la sua ordinazione sacerdotale, in una chiesa, la sua cara parrocchia dello Spirito Santo di Su Planu, stracolma di persone. Come ricorda quel giorno?
"Quasi tre anni fa. Mi sento come un bambino piccolo che impara a camminare. Lo ricordo con enorme gioia, molta trepidazione. Portavo quel giorno, come adesso il desiderio nel cuore di collaborare alla gioia di tanti: a quella di chi il Signore ha posto e continua a porre nel mio cammino. Portavo, la consapevolezza di diventare prete in questo tempo, in questa stagione di Chiesa, difficile ma non scoraggiante e ricca di stimoli. Mi metto in gioco e mi consegno a Lui e alla Chiesa per quello che sono, con questa mia umanità fragile ma anche benedetta e preziosa. L’altra sensazione di quel giorno, la stessa di oggi, che in realtà è il mio sentimento più grande, è la gratitudine. Nella mia vita niente è mai stato scontato, banale. Guardo con affetto chi mi ha accompagnato fino ad oggi: la mia famiglia, la mia parrocchia di origine, il seminario, figure di sacerdoti, don Salvatore tra questi, decisive per me e che mi hanno fatto sentire tutta la premura con cui la Chiesa che è madre e maestra, ha preparato i suoi figli. Ogni tanto, nonostante tempi difficili, può risuonare la bella notizia di un prete umanamente felice."
Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla morte di Don Salvatore, un prete amato da tutti noi. Come vive in lei, nel quotidiano, il suo ricordo?
"Sento vere e non azzardate le considerazioni che feci cinque anni fa. Oggi, con il senno di poi comprendo cosa voglia dire dare la vita per un popolo e una comunità. Quando si ama per eccesso succede sempre e inevitabilmente così. Comprendo per chi sono state offerte le sofferenze di don Salvatore. Penso sempre alla sua famiglia, alla sua comunità quella che ha fondato, al nostro presbiterio in cui si sentiva perfettamente integrato, ai suoi medici e a chi si è prodigato giorno e notte per lui. Il suo sacerdozio, il suo spirito missionario ma soprattutto la sua umanità li vedo raccolti e condensati nel suo calice di legno che è non solo il calice della sua ordinazione, ma anche quello dal quale io ho ricevuto tutti i sacramenti fino alla mia ordinazione. Questo, mi aiuta ogni giorno, perché so bene di essere prete solo per misericordia e non per merito."