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Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale in Sardegna, riflette sulla sua recente visita a un detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Uta e scrive una lettera aperta al ministro della Giustizia, Nordio: "Da giorni penso e ripenso a quella visita, a cosa avrei potuto fare. Lo avevo incontrato due giorni prima che compisse il gesto disperato. Aveva catturato la mia attenzione perché a differenza di altri non chiedeva niente - racconta Irene Testa -. Quando si entra nelle sezioni le richieste d'aiuto sono interminabili e si levano disperate da tutte le celle come fossero gironi infernali. Ma lui no, non aveva chiesto niente".
"Era seduto pensieroso davanti alla finestra della sua cella - continua la garante -. Gli ho domandato se stava bene. Sembrava spaesato, come se quella dimensione non fosse per lui. Occhi azzurri e volto pulito, lo facevano apparire come un corpo estraneo all'interno di un contenitore di dolore. Mi ha detto che stava leggendo un libro che teneva sulla branda e che aspettava il nulla osta per poter andare in comunità. Il compagno di cella si preoccupava per lui, ripeteva in continuazione che non stava bene e che aveva già tentato il suicidio".
Irene Testa critica aspramente un sistema carcerario che non funziona, mettendo in evidenza come produca dolore e morte anziché riabilitazione. Si appella al Ministro della Giustizia affinché comprenda che ogni giovane che si toglie la vita in carcere rappresenta un fallimento dello Stato. Chiede che la detenzione rispetti il senso di umanità e che si ponga fine a questa "flagranza criminale" che porta alla morte anziché alla riabilitazione. "Era in custodia cautelare e si trovava in carcere per il fallimento a vari livelli anche delle agenzie territoriali. Doveva essere curato non custodito. In tanti in questi giorni ci siamo sentiti in colpa, ci siamo domandati se ognuno di noi avesse potuto fare di più".
"Penso alla mamma che è venuta a saperlo da una chat di familiari di altri detenuti che hanno postato un articolo di giornale e ha subito sospettato si trattasse di suo figlio. Non si sbagliava. Era il suo ragazzo. Quando la chiamo ho poche parole di conforto per la madre. La sensazione è di imbarazzo, di disagio, la tentazione è quella di chiedere scusa. Abbiamo fallito tutti ed è inaccettabile che noi operatori a vario titolo dobbiamo sentirci in colpa a causa di un sistema che non funziona. Di un sistema che fa strage di diritto e di vite umane. Di un sistema che induce alla morte più che a riprendersi la vita. Non si può continuare ad assistere a questa carneficina quotidiana. E non dobbiamo essere noi operatori a chiedere scusa ma uno Stato assente e cinico che ha deciso di nascondere il disagio all'interno di contenitori oramai illegali che producono morte e disperazione".
Irene Testa si rifiuta di accettare che il carcere sia un luogo di morte anziché di recupero e si rivolge al Ministro affinché intervenga per porre fine a questa situazione. Concludendo, Irene afferma: "Non dobbiamo essere noi operatori a chiedere scusa ma uno Stato assente e cinico che ha deciso di nascondere il disagio all'interno di contenitori oramai illegali che producono morte e disperazione".
"Mi appello ancora al Ministro della Giustizia affinché comprenda che ogni giovane che evade dal carcere togliendosi la vita è anche e soprattutto un suo fallimento. Continueremo, Ministro, a esigere che anche chi ha sbagliato goda di una detenzione improntata allo Stato di Diritto e che la pena rispetti il senso di umanità. Anche se siamo stanchi e scoraggiati continueremo imperterriti a batterci affinché si interrompa questa flagranza criminale e criminogena, di uno Stato che si volta dall'altra parte", dice infine la garante delle persone private della libertà personale in Sardegna.