Sardegna Live, in occasione del secondo anniversario della scomparsa di Silvana Gandola, sta ricostruendo il percorso investigativo che ruota attorno all’inquietante giallo della morte della pensionata torinese. Scomparsa il 28 marzo 2021, i suoi resti furono trovati poco meno di un anno più tardi. La 78enne si era recata insieme alla badante presso la spiaggia di San Silverio, a Vignola, per una passeggiata. Da lì in poi il buio e tanti punti di domanda irrisolti. Il suo cranio e alcuni frammenti ossei vennero individuati il 29 gennaio 2022 in un’area di difficile accesso non distante dal luogo dove se ne erano perse le tracce.

La figlia della vittima, Laura Rizzi, chiede a gran voce verità e giustizia per la madre e si oppone all’archiviazione delle indagini per omicidio contro ignoti avviate dalla Procura di Tempio Pausania.

In questi mesi, la donna ha potuto contrare sul supporto di un team di superesperti che sta conducendo una serie di indagini a titolo privato. Dopo l’intervista all’antropologa e odontologa forense Chantal Milani (leggi qui) e alla criminologa Roberta Bruzzone (leggi qui), Sardegna Live ha raccolto anche il punto di vista del geoarcheologo forense Pier Matteo Barone.

Dottor Barone, lei fa parte dell’equipe individuata dalla signora Rizzi che da diversi mesi lavora sul campo per fornire nuovi spunti investigativi alle autorità. Qual è stato il suo contributo professionale?

"Io sono un criminalista esperto di geoarcheologia forense. Mi occupo di analizzare il territorio in caso di persone scomparse dalla macroscala alla microscala. Parto, cioè, dall’analisi generale che può essere fatta utilizzando immagini satellitari, fino ad andare nel dettaglio di determinate zone in cui si individuano anomalie. Lì si lavora col supporto del georadar o, se necessario, con uno scavo archeologico per individuare eventuali resti più o meno occultati."

Nell’ambito delle indagini per la scomparsa della signora Gandola, quando è stato interpellato?

"Sono intervenuto nella fase in cui Silvana Gandola era scomparsa e non erano ancora stati trovati i resti. In quel frangente ho effettuato una relazione in cui analizzavo quello che viene definito il locus operandi, cioè la zona in cui poteva essere trovata la persona anche in vita. Il raggio di azione viene individuato mediante calcoli statistici in base alle abitudini dello scomparso e ai momenti precedenti la sparizione. È un metodo creato da me che ha dato sempre buoni risultati. In questo caso il risultato è stato completamente ignorato dalle forze dell’ordine."

L’area che aveva individuato è la stessa nella quale dopo un anno sono stati trovati i resti ossei?

"No, la cosa più interessante è che si trattava di un territorio lontano da dove sono stati trovati i pochi resti del corpo. Una zona che non è mai stata attenzionata dagli inquirenti e che secondo me, ai tempi della scomparsa, poteva dare dei risultati positivi."

Che altri elementi ha raccolto?

"Ho svolto un’analisi delle immagini satellitari risalenti a un’ora e mezzo dopo il momento della scomparsa. Volevo verificare la presenza della macchina della badante che racconta di aver accompagnato la signora Gandola a San Silverio. Ho cercato di individuare un’immagine della signora Gandola stessa fra la macchia. In quelle immagini, però, non vi è traccia alcuna né della macchina né delle persone in questione."

Ha osservato anche le immagini relative all’area in cui sono state trovate le ossa?

"Certo. Quando sono stati rinvenuti i pochissimi resti ossei riconducibili alla Gandola sono andato a visionare le immagini relative all’area del ritrovamento e quei resti non sono visibili né il giorno della scomparsa, né il giorno successivo e neanche a distanza di dieci giorni, due settimane.  È difficile che una fotografia menta e quei resti sicuramente non stavano lì."

Le immagini hanno un grado di definizione così elevato da permetterle di dire al di là di ogni dubbio che quei resti non erano lì?

"Assolutamente sì. Hanno una risoluzione di mezzo metro. Ci sono poi una serie di filtri che possono essere applicati per individuare meglio un’eventuale anomalia legata a resti. In quella zona non vi è nessun tipo di evidenza che mi porti a dire che ci sono resti umani."

I risultati delle sue indagini sono stati accolti?

"La mia prima relazione fu presa poco in considerazione dalle forze dell’ordine. Gli ultimi elementi emersi, per fortuna, hanno convinto il giudice a prendere in considerazione i dati non archiviando il caso e rimandano al pm l’analisi di queste immagini per approfondire il tutto."

Quali sono gli strumenti e i supporti operativi che utilizza e su cui compie i suoi studi?

"Per recuperare le immagini satellitari e ricostruire il locus operandi utilizzo la piattaforma GIS (Geographic information system). Si tratta di un sistema informativo territoriale, un software che raccoglie le informazioni del territorio e mi permette di utilizzare algoritmi e indici tramite i quali posso evidenziare eventuali anomalie. I satelliti, infatti, sono dotati di telecamere fornite di più sensori rispetto a quelli dell’occhio umano. Le immagini, se correttamente processate, danno una serie di informazioni che a occhio nudo non possiamo rilevare, come ad esempio la presenza di resti di un corpo sulla terra. Per quanto riguarda il locus operandi, sempre tramite GIS, colleziono informazioni sulla persona scomparsa e faccio un calcolo geostatistico su dove può essersi diretta individuando una zona circoscritta (nel caso della Gandola aveva un raggio 500 m) sulla quale focalizzare l’attenzione."

Che grado di efficacia ha questo sistema?

"È un sistema che ho creato durante il periodo Covid, quando i casi di scomparsa sono aumentati esponenzialmente, e mi ha permesso di ritrovare 9 persone su 10."

Sarebbe possibile, consultando gli archivi delle immagini satellitari, ricostruire il periodo nel quale i resti della Gandola hanno fatto la loro comparsa nell’area del ritrovamento e, eventualmente, individuare le tipologie di auto o le persone presenti nei dintorni?

"Sulla carta è possibile. I satelliti sono in teoria geostazionari, cioè scattano una foto della stessa area ogni 24 ore. Il problema è che alcune zone vengono coperte di più e altre meno. In questo caso io ho una copertura delle prime due settimane, nelle quali sicuramente i resti non sono presenti. Si potrebbe tentare di fare lo stesso lavoro per altri giorni nel corso del tempo ma non sempre queste immagini sono accessibili. Queste ultime analisi, ad esempio, sono state fatte recentemente perché il sistema ha dato accesso alle immagini dopo molto tempo. Più avanti si potrebbe tentare di approfondire, certo farlo per un arco di tempo lungo due anni comincia a essere complesso e oneroso anche dal punto di vista economico."

L’ambito nel quale si muove lei è sufficientemente battuto nel campo investigativo o è una frontiera ancora da esplorare?

"La geoarcheologia forense è un approccio standardizzato e protocollato in gran parte del mondo. Io lavoro nel Regno Unito e con altri Stati che applicano queste metodiche. In Italia, purtroppo, si fa fatica a recepire. Lo si fa solo quando familiari di persone scomparse si incaponiscono e capiscono il valore di questo tipo di consulenze cercando di farle passare nelle giuste corsie. Purtroppo qua si ha spesso diffidenza rispetto al nuovo. Io ritengo che le nuove tecnologie, penso all’intelligenza artificiale, potrebbero essere di enorme aiuto anche e soprattutto nella ricerca di persone scomparse."

 

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