Il 9 ottobre 2013 il disastro del Vajont ha compiuto cinquant’anni. Tanto è trascorso dalla notte in cui circa 260 milioni di metri cubi di roccia sprofondavano alla velocità di 108 km/h nel bacino artificiale contenente oltre 115 milioni di metri cubi d’acqua. La dinamica della catastrofe si è concretizzata per il tragico concorso di elementi naturali e di responsabilità umane. La diga, infatti, sorgeva in un’area ad altissima piovosità in cui le condizioni geologiche erano instabili, ma è ciò che avvenne il 4 novembre 1960 che doveva servire da ammonimento per fermare il progetto. Una larga porzione del versante del Monte Toc franò, appunto, nel lago artificiale provocando un’onda di 10 metri ma nessun danno. Era un avvertimento dal quale si dovevano trarre le dovute conseguenze. Dagli studi, simulazioni e verifiche effettuati a partire dal 1957, infatti, ciò che poi si è tristemente manifestato fu previsto con un’esattezza sconcertante.

 

I tentativi di salvare l’impianto, la famosa “corsa al collaudo”, bypassarono i precedenti sintomi geologici di un’inadeguatezza strutturale comprovata, le proteste degli abitanti della valle e i forti dubbi che serpeggiavano ormai anche negli organi preposti al controllo del progetto. In particolare una giornalista, Tina Merlin, denunciò con una serie di articoli il pericolo di frana del Monte Toc. Fu tacciata ed accusata di speculazione politica. Dal 1961 al 1963 furono praticati numerosi invasi e rapidi svasi, allo scopo di generare una frana che potesse stabilizzare le condizioni del Monte Toc, ma non si verificò mai una frana delle dimensioni ipotizzate e il 4 settembre 1963 si arrivò a quota 710 metri. Gli abitanti della zona denunciarono movimenti del terreno e scosse telluriche, inoltre venivano distintamente avvertiti boati provenienti dalla montagna. Il disastro annunciato si materializzò sul paese di Longarone e sull’abitato del fondovalle veneto alle h. 22,39 del 9 ottobre 1963 come un muro d’acqua che si abbatté con una potenza uguale a l’onda d’urto della bomba atomica che venne sganciata su Hiroshima. La diga resistette ma l’onda spazzò via gli abitati del fondovalle veneto e provocò la morte di 1.910 persone. Furono rinvenuti circa 1.500 corpi, metà dei quali irriconoscibili.

In seguito uno stillicidio di responsabilità e una serie di sentenze del processo che si conclude nel 1971 per i reati di omicidi plurimi aggravati, disastro colposo di frana e disastro colposo d’inondazione. Le sentenze definitive decretarono l’effettiva prevedibilità dell’evento ma la vicenda si conclude solo nel 2000 con un accordo tra Montedison (che aveva acquisito la Sade), Enel e Stato per risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe.

Oggi all’ombra di una diga che si erge come una immensa lapide il paese di Longarone, il più colpito perché venne completamente distrutto, è il frutto di una ricostruzione voluta dai superstiti che sono rimasti. Una scelta coraggiosa in difesa delle origini e della memoria degli abitanti scomparsi affinché di essi non venisse spazzato via anche il ricordo. Oggi la fusione del vecchio e del nuovo lo rende un centro attivo e vivace ad economia prevalentemente industriale e ospita alcune mostre tra cui primeggia la Mostra internazionale del gelato. Le scuole sono numerose e anche le associazioni, soprattutto sportive.

L’incredibile forza di volontà di un paese sventrato che ha dovuto accettare e che ha voluto ricominciare è un esempio per tutte le generazioni future e merita un immenso rispetto.