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“Quando si parla di vocazione si parla per definizione di “chiamata” e quindi di risposta. La nostra è una risposta più che una scelta, o forse la scelta di rispondere!”
Il suggestivo Monastero del Buon Cammino, costruito sul colle omonimo nella prima metà del XVII secolo, domina l’intera città ed è affidato alle cure delle Sorelle Povere di Santa Chiara. È un luogo immerso nel verde e avvolto da un fascino mistico quasi palpabile.
Durante la piacevole chiacchierata con le sorelle siamo completamente rapiti da un’atmosfera di serenità che percepiamo molto chiaramente. Un modo di vivere, il loro, spesso giudicato incomprensibile, ma che cela la necessità di rispettare ciò che si sente dentro, in totale libertà e senza condizionamento alcuno. Basta sentirle parlare per porci una semplice domanda: in fondo cosa ci rende davvero felici? Davanti a quei sorrisi dolcissimi ci liberiamo, in un solo attimo, di pregiudizi e stereotipi inutili e ci facciamo rapire delle loro storie di vita che, con pazienza e gentilezza, hanno accettato di raccontarci.
Quante siete nel vostro Monastero Beata Vergine del Buon Cammino?
Siamo 8 sorelle, di cui 7 monache di voti solenni e una postulante cioè una ragazza che desidera abbracciare la nostra vita e sta vivendo la prima tappa del cammino formativo, il “postulantato”, ovvero un anno di esperienza per discernere meglio la propria vocazione.
Cosa facevate prima di decidere di dedicare la vostra vita a Gesù?
Qualcuna di noi è entrata in monastero molto giovane, appena diplomata, quindi si può dire che è passata dalla scuola e dalla famiglia direttamente al monastero. Altre invece avevano avuto già esperienze lavorative e attività più o meno prolungate e impegnative in vari campi, dalla finanza all’informatica, dalla musica classica all’educazione dei giovani.
A che età avete sentito la chiamata?
Come dicevo, qualcuna molto presto, nell’adolescenza o prima giovinezza (anche se poi per entrare bisogna comunque aspettare i 18 anni), altre intorno ai trent’anni di età, a seguito di un cammino di fede più approfondito.
La domanda tipica: perché avete scelto proprio la clausura?
Innanzitutto quando si parla di vocazione si parla per definizione di “chiamata” e quindi di risposta. La nostra è una risposta più che una scelta, o forse la scelta di rispondere! Per alcune di noi la decisione per la clausura è stata consapevole, maturata nella ricerca e nel confronto con altre forme di vita. Ad un certo punto è stato chiaro per noi che dedicarsi a Dio attraverso opere di apostolato, di carità, di missione, per quanto bello, non avrebbe però esaurito il desiderio, il bisogno vitale di dare tutto a Dio, di donargli interamente la vita, la propria persona, anima e corpo, cuore e attività. Abbiamo trovato in questa forma di vita la modalità per esprimere il dono o meglio la restituzione totale di noi stesse, secondo la chiamata che Dio ci aveva fatto sentire nel profondo del loro cuore. Per altre sorelle invece l’ingresso in clausura è stata la semplice conseguenza di un incontro con la nostra comunità, nel quale hanno riconosciuto come una “connaturalità” tra la nostra forma di vita e i desideri profondi che Dio aveva messo nel loro cuore, oppure una misteriosa attrazione nella quale hanno riconosciuto la volontà di Dio per loro. Solo in seguito, riflettendo e operando un discernimento più maturo, hanno compreso quali erano le esigenze e le caratteristiche di questa nostra vocazione. In nessun caso, comunque, l’ingresso in clausura ha avuto come motivazione la “fuga” dalle responsabilità della vita, dalla fatica del quotidiano o tanto meno la delusione o la frustrazione affettiva o esistenziale. Si può entrare in monastero (e soprattutto rimanervi!) solo dopo aver sperimentato l’amore travolgente del Signore, la sua vittoria sulla morte, la sua pienezza, che rende superfluo ogni altro bene della vita, per quanto prezioso. Come una famiglia propria, il lavoro, le amicizie, la libertà e l’autonomia di potersi gestire gli spazi secondo la propria volontà.
Cosa replichereste a chi parla della clausura come di una scelta triste ed estrema?
Risponderemmo tutte, sicuramente, con un invito: vieni e vedi! La gioia che si vive in un monastero e che tutti colgono quando vi si accostano è la prova migliore che quelle opinioni sono dei pregiudizi immotivati! Se per “scelta estrema” si intende “radicale”, “amore a Cristo portato alle estreme conseguenze” allora si può anche essere d’accordo!
Avete avuto mai momenti di dubbio, di crisi, di ribellione o di ripensamento?
Il dubbio fa parte del cammino di ogni persona intelligente, li ha avuti anche Giovanni Battista su Cristo! L’importante è affrontarli davanti a Dio e con l’aiuto di una guida spirituale! Anche la crisi fa parte della crescita umana e spirituale. Senza le crisi saremmo degli automi. La crisi è il momento del “salto di qualità”, in cui si ri-sceglie, si approfondiscono le motivazioni, si aderisce in modo più consapevole e maturo alla chiamata. Certamente, se in un momento di crisi si “fugge” o si rimette in discussione tutto ciò che si è sperimentato e scelto, allora la crisi si può trasformare in abbandono della vita religiosa.
Qual è la vostra esperienza del silenzio?
Bisogna premettere una precisazione: noi Clarisse non abbiamo lo stile delle Trappiste o delle Certosine, per le quali il silenzio è la condizione basilare per vivere quello stile eremitico che le caratterizza. L’atmosfera di una comunità di Sorelle Povere è quella di una fraternità, che vive nella comunione il rapporto con il Signore. Certamente è indispensabile per la vita contemplativa mantenere il raccoglimento, evitare parole inutili, custodire il dialogo intimo con Dio. Santa Chiara per questo motivo raccomanda di comunicare tra sorelle solo “quanto è necessario, con brevità e sottovoce”. Ci sono però anche per noi orari di silenzio “rigoroso”: dalla preghiera di Compieta (cioè prima di coricarsi) fino all’Ora Terza (circa le 9 del mattino), cioè la notte e al mattino fino al momento della ripresa delle attività. Così pure ci sono dei luoghi nei quali il silenzio deve essere osservato in modo speciale: la chiesa, il coro, il dormitorio…e questo per custodire la preghiera e il riposo delle sorelle. Devo dire che siamo così abituate al silenzio (anche grazie alla posizione isolata del nostro monastero), che ci sembra l’atmosfera normale e naturale della vita. Quando giungono ospiti e visitatori, invece, restano tutti colpiti dal silenzio che avvertono e dalla pace che regna in questo luogo e che si comunica a chi vi si ferma! L’amore a volte ha bisogno di parole, altre volte ha bisogno di silenzio!
Cosa consigliereste ad una giovane donna che sta per consacrarsi con la professione religiosa?
Prima di tutto le direi che Dio le sta facendo un dono inestimabile, che scoprirà sempre di più come una grazia straordinaria. E la incoraggerei con le parole di santa Chiara: “Tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza, i risultati raggiunti conservali, quello che fai fallo bene, non arrestarti, ma avanza, confidente e lieta sulla via della beatitudine che ti sei assicurata!”. Questo in altre parole significa: “Ricorda sempre la chiarezza della chiamata iniziale, quello che il Signore ti ha ispirato e quello che ti ha promesso. Fidati di Lui e continua a camminare, crescendo nella conoscenza del Signore e nell’adesione a Lui, senza scoraggiarti nelle difficoltà, ma perseverando con fermezza e con fede fino alla fine! Dio è fedele, e porterà a compimento l’opera cha ha iniziato con te!”.
Come descrivereste la vostra vocazione?
Nel vangelo troviamo alcune “icone”, cioè immagini, personaggi e situazioni, che possono esprimere il senso della vita claustrale delle Sorelle Povere di santa Chiara. Una di queste è la cosiddetta “unzione di Betania” (Gv 12). Quella donna, che spezza il proprio vasetto di alabastro e “spreca” una quantità ingente di unguento prezioso versandolo sui piedi di Gesù, esprime un amore senza limiti e senza calcolo, che va al di là di ogni logica e di ogni ritorno. E’ un gesto in pura perdita che significa amore e riconoscenza per la misericordia ricevuta, significa che Gesù è Dio, è il più bello dei figli dell’uomo, è il mio Signore e merita il dono della mia vita, di tutto ciò che ho e che sono. Al suo confronto tutto svanisce. Cercare di misurare l’utilità di un gesto simile è offensivo per Gesù, è grettezza, come Gesù stesso fece notare rimproverando Giuda ed elogiando quella donna. A chi trova inutile la nostra vita, questo vangelo dona un aiuto grande per comprendere! Un’altra icona evangelica è quella delle donne al mattino di Pasqua, quando, trovata la tomba vuota, corrono dai discepoli annunciando la risurrezione. Noi gridiamo, anche senza parlare, che Cristo è vivo, che l’abbiamo incontrato, che la morte è vinta e il sepolcro è vuoto! Noi stiamo in questo luogo in modo profetico testimoniando, con una vita che si nutre dell’essenziale, ma che trabocca di fede, vitalità e gioia, che Dio è amore, che Lui sazia la nostra vita, è la risposta al nostro bisogno di senso, è la vita eterna alla quale siamo tutti chiamati! Come abbiamo già detto, poi, la nostra è una vita “insieme”, una vita di sorelle. Dio ci dona comunione e unità anche grazie al continuo morire a se stessa di ciascuna di noi, che fa spazio alla sorella rinunciando al proprio io egoistico. Nell’amore reciproco appare Gesù stesso, come ai discepoli, e dice: “Pace a voi!”. Dio è comunione, Dio è Trinità, essere “a sua immagine e somiglianza” significa amarsi come Gesù ci ha amato e sperimentare in terra la comunione che esiste in cielo. La nostra Forma di Vita “in santa unità e altissima povertà” è un carisma, un dono speciale per viverlo e testimoniarlo.