Ci sono storie che non si dimenticano. Attraversano gli anni, i decenni, e rimangono in un angolo della memoria, un po' impolverate ma mai messe da parte. Succede così nelle città di provincia, dove la quotidianità è piatta e malinconica, dove tutti conoscono tutti e gli amici, i locali, la vita è la stessa da sempre.

Porto Torres, alla fine degli anni '80, era così. E lo è ancora oggi, pur con quei mutamenti sociali, economici e culturali inevitabili in un trentennio complesso, frenetico e controverso che ne ha fiaccato un po' il respiro nella vana rincorsa al miracolo industriale.

In questo quadro urbano, comune e un po' monotono, si sviluppa la vicenda di Michela Deriu, la barista 22enne trovata impiccata a casa di un'amica e dietro la cui morte, inizialmente catalogata come suicidio, potrebbe nascondersi invece un omicidio.

Una vicenda che ha sconvolto la popolazione turritana che, tendenzialmente estranea a fatti di violenza, non ha dimenticato una vecchia storia di sangue che segnò profondamente la vita della città sul finire degli anni '80.

Era il 10 settembre 1988 quando Alina Cossu, studentessa universitaria 21enne, venne trovata morta ad Abbacurrente, un bancone di roccia affacciato sul mare e distante circa quattro chilometri dal centro abitato. Il corpo della ragazza, scomparsa la sera prima, venne trovato in acqua da due pescatori e anche in quel caso si pensò inizialmente al suicidio. Fu il medico legale a capire che la giovane era stata strangolata prima di essere gettata in mare, sulla sua fronte il segno di un calcio sferrato con una scarpa da barca.  

Sulla morte di Alina Cossu non è mai stata fatta chiarezza e il responsabile di quel brutale omicidio è rimasto impunito. Il caso, negli anni, ha suscitato un'importante eco mediatica. Il programma "Chi l'ha visto?" ha dedicato diversi approfondimenti alla vicenda e la famiglia, da sempre, ha chiesto una mano a chi sa o ha sentito qualcosa. Tante le chiamate anonime arrivate in casa Cossu da parte di fantomatici testimoni la cui attendibilità non è mai stata verificata a pieno.

La sera del delitto, la giovane, terminato il suo turno di lavoro come cameriera al bar Acciaro, nel corso, sarebbe dovuta andare al Villaggio Verde dove si teneva la festa di San Cristoforo. Nel piazzale della festa, in realtà, non arrivò mai. Fin da subito sotto la lente degli inquirenti finì Gianluca Moalli, 27 anni, operaio, che venne arrestato dopo tre anni di indagini nel 1992. Moalli, che in precedenza aveva rivolto delle attenzioni alla Cossu, era in possesso di una Fiat Ritmo Bianca, la stessa auto vista da alcuni testimoni la notte dell'omicidio nei pressi della scogliera di Abbacurrente. Nei giorni successivi al delitto, raccontarono gli amici, aveva dei graffi sul collo, portava inoltre un modello di scarpa simile a quello calzato dall'assassino, fumava sigarette Marlboro e un pacchetto di quella marca fu trovato sul luogo del delitto. Elementi troppo deboli che pochi mesi dopo l'arresto portarono alla scarcerazione e proscioglimento dell'operaio.

Nel 2008 la Procura di Sassari riprese in mano le carte indagando su un circolo privato situato a poca distanza dal bar Acciaro al cui interno, la sera della scomparsa di Alina, si teneva una cena fra amici. Un ottico, un vigile urbano e due pensionati presenti alla cena finirono nel registro degli indagati. Secondo il pm sapevano qualcosa che non avevano rivelato nella prima fase delle indagini. Dopo approfonditi esami ed analisi, l'inchiesta venne archiviata e tutto si risolse con un nulla di fatto.

Sempre nel 2008 l'attenzione degli inquirenti venne rivolta ad una quinta persona. Si trattava di un medico di Sassari conoscente della vittima e presentatosi dai carabinieri per esami del tutto etranei al caso di Alina Cossu. L'omicidio della ragazza venne però tirato in ballo nel corso del confronto con i militari e il medico raccontò di aver avvicinato la ragazza nei giorni precedenti la scomparsa. Così partì un filone di indagine nuovo e privo di successo che si esaurì in un paio di mesi.

Nel 2012, gli inquirenti, ricevettero la fotografia del negozio dell'ottico indagato quattro anni prima con scritto sopra "Alina". Un'indicazione che riportò l'attenzione sul circolo convincendo gli investigatori a percorrere l'ennesimo vicolo cieco. L'ottico coinvolto nell'inchiesta si sarebbe poi suicidato, nel 2013, gettandosi da una finestra dell'Ospedale civile di Sassari dove era ricoverato per una brutta malattia che lo stava consumando.