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"Non ci fu un mandato omicidiario, Dina Dore è morta a causa del fatto che qualcosa andò storta nell'esecuzione di un altro reato, probabilmente un sequestro di persona o un furto d'armi".
Così l'avvocato Angelo Manconi, uno dei difensori di Francesco Rocca, condannato in primo grado all'ergastolo come mandante dell'omicidio della moglie Dina Dore, avvenuto il 26 marzo del 2008 nel garage della loro abitazione.
"Rocca non può essere il mandante di un assassinio che nessuno aveva preventivato", ha sostenuto il legale nell'udienza odierna celebrata nella Corte d'assise d'Appello di Sassari.
Il legale ha ricostruito i fatti e ha sostenuto le "gravi lacune di un processo costruito male".
Per la difesa del dentista di Gavoi, "l'ergastolo inflitto in primo grado a Francesco Rocca è figlio di un'istruttoria viziata e incompleta, basata su accuse infondate, su personaggi inattendibili".
Il legale parla di depistaggi architettati con lettere anonime e fonti confidenziali contraddittorie, della sottovalutazione di testimonianze importanti come quella di Fabrizio Sedda, un giovane del paese che sarebbe stato minacciato perché riferiva agli investigatori dettagli utili a scagionare il presunto mandante.
Ma soprattutto, l'avvocato Manconi punta il dito contro Stefano Lai, l'uomo che a distanza di quattro anni dal delitto avrebbe raccolto le confidenze dell'amico Pierpaolo Contu, condannato a 16 anni come esecutore materiale dell'omicidio di Dina Dore con una sentenza confermata anche dalla Corte di Cassazione.
Ma secondo l'avvocato quanto asserito da Lai è falso. "L'unica traccia di Dna isolata nel nastro con cui la donna fu immobilizzata non è riconducibile a Contu", insiste. Di più, gli esami che il consulente della difesa, il genetista Emiliano Giardina, eseguì incrociando quella traccia con i campioni di Dna prelevati dagli investigatori a Gavoi e in altri paesi del circondario, avrebbero provato che al 97% delle probabilità la traccia apparteneva a un consanguineo maschio del padre di Stefano Lai.