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“Non spetta qui e, a me, dire cosa è giusto o cosa è sbagliato, ai posteri la narrazione e i giudizi di merito”.
Cristiano Ardau, sindacalista della Uilt-Tucs, che di battaglie ne ha fatto e continua a farne per salvaguardare posti di lavoro, salvare maestranze sull’orlo del baratro, analizza uno scenario oggi quasi spettrale, complice la pandemia da Covid-19 che ha fatto abbassare le serrande, soprattutto di domenica, da sempre vissuta, lavorata e faticata da migliaia di lavoratori delle grandi strutture commerciali: “Era il 1998 quando la Città Mercato decise di aprire la domenica, storici ipermercati della Famiglia Agnelli. Poche settimane dopo seguì l’Iperstanda, allora di proprietà di Silvio Berlusconi. Reazioni commerciali alle decisioni del colosso francese Carrefour che aprendo una volta al mese, era libertario su un tema caro anche per la Chiesa Cattolica.
Era anche il tema acceso delle discussioni nelle assemblee sindacali di allora – rammenta Ardau - come elemento di novità, più culturale che commerciale.
Le federazioni sindacali di categoria colorarono negli anni a venire, le loro posizioni politiche con duri strali verso l’apertura domenicale, comprensibili posizioni di default a favore dei commessi.
Abituati alla cadenza divina del settimo giorno di riposo e, del pane fresco comprato la domenica mattina dai venditori ambulanti per la strada, si inseriva infatti la modernità che avrebbe poi negli anni stravolto la vita di centinaia di migliaia di persone in Italia.
Commessi e non, dentro un ciclo 7 giorni su 7, vita perennemente attiva.
Ci fu la gara di molti addetti nel dar la disponibilità, visto che allora veniva data anche una buona paga. Disponibilità solo volontaria, vista la rigidità dei contratti di assunzione sulla prestazione domenicale.
Ma il cavaliere rosso del progressismo, On. Pierluigi Bersani, allora Ministro Dello Sviluppo Economico – ammette il segretario Uil-Tucs - diede una forte accelerazione sul tema con il Decreto di Marzo del 1998, il 114, incominciando a liberalizzare strutturalmente le aperture domenicali. Fu accusato di essere troppo vicino alle istanze degli operatori.
Nel frattempo i clienti incominciavano ad apprezzare la possibilità di fare la spesa la domenica, spostando i fatturati dai giorni feriali al fine settimane, domenica compresa.
Gli operatori, golosi di nuovi guadagni e attenti nel dare ai clienti ogni ampia soddisfazione e servizio, diedero un radicale cambio organizzativo per vincere la nuova sfida della domenica.
Ben presto arrivarono i contratti domenicali di 8 ore giornaliere.
Cambiarono le abitudini commerciali, la stessa socialità e la cultura nei territori, vedendo i centri commerciali di domenica come i nuovi centri di aggregazione sociale.
La metamorfosi dei contratti dei lavoratori subì un’accelerata, passando dai contratti part time senza la domenica in contratto, a quelli con la possibilità di lavorare la domenica. Chi era full time rimaneva ancora protetto, con la presenza di addetti in azienda che ancora potevano decidere di lavorare o meno, a dispetto di chi incominciava ad avere l’obbligo del lavoro domenicale.
Questo non giovò alle retribuzioni domenicali, con molte aziende che forzavano la mano per poter pagare la domenica con solo compensi ordinari.
Il D.Lgs 66 del 2003 incominciò a minare molte certezze per i lavoratori del commercio perché diede una lettura diversa del Regio Decreto del 1934, il 370.
“Il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica”, tuonava il Decreto quasi come un anatema verso il settimo giorno di riposo previsto dal Santissimo.
Nel frattempo i nuovi assunti part time, avevano ormai l’obbligo del lavoro domenicale, inserito nella loro distribuzione dell’orario settimanale. Clausola impossibile da contrastare al momento della firma dell’assunzione per poter fare il grande salto tra la loro disoccupazione e un bel posto nella multinazionale della grande distribuzione organizzata di turno.
Neanche Renato Soru, allora Governatore della Regione Sardegna – sottolinea Cristiano Ardau - con la L.R. 5 nel 2006, “previa concertazione con le organizzazioni dei consumatori, delle imprese del commercio più rappresentative, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle altre parti sociali interessate, il comune può consentire omissis l’apertura domenicale e festiva” riuscì a dare una stretta alle aperture domenicali.
I tavoli di concertazione nei vari comuni, si lasciarono piegare alle pressioni degli operatori, con Sindaci affascinati dal tutto aperto e deboli verso il potere economico delle aziende della G.D.O. e sindacati dei lavoratori battersi sino all’ultimo fendente per il tutto chiuso.
Dà lì a poco arrivò il colpo di scena, nella calura estiva, con la cd. Manovra d’Estate che, con il D.Lgs 118 del 2008, sancì per sempre il principio del riposo settimanale non coincidente con la domenica.
Questo mise in difficoltà il sindacato nella contrattazione collettiva per un elemento di novità che di fatto dava la possibilità alle aziende di avere mano libera sul lavoro domenicale.
Si corse ai ripari con il Contratto Nazionale del Commercio che limitò fortemente la possibilità al ricorso del lavoro domenicale per la metà delle domeniche del calendario annuale, 24/26 in luogo delle 48/50”.
Il colpo di grazia
“Ma ormai i giorni erano fatti e ormai quasi tutti i part time avevano l’obbligo del lavoro domenicale. Il Decreto Monti sulle liberalizzazioni del 2011, il cd “Salva Italia” diede infine il colpo di grazia.
In tutta queste evoluzioni commerciali, normative e culturali – prosegue Ardau - le Federazioni dei commessi hanno sempre denunciato l’apertura domenicale come quella festiva. Un mix di comprensibili istanze, a tutela dei commessi sia per l’eccessivo ricorso al consumismo, l’impossibilità per i commessi e le famiglie di poter sviluppare ritmi di lavoro e non in maniera armoniosi oltre ad una oggettiva carenza delle retribuzioni domenicali.
Il numero dei lavoratori con l’obbligo di prestare servizio la domenica e le pressanti esigenze della clientela, hanno acceso i dibattiti nelle contrattazioni nazionali e aziendali con difficoltà di coniugare esigenze spesso contrastanti e confliggenti.
Storie di persone prima di tutto, ormai vittime del consumismo e singolari clienti nelle loro tante vicende personali di commessi/persone, nel tentare di trovare come possibile, congrui momenti di riposo domenicale a dispetto delle esigenze aziendali, i soprusi di capi poco illuminati e le pressanti esigenze dei clienti.
Oggi in Sardegna dopo oltre due decine di anni, il commercio osserva la chiusura totale per disposizione del Presidente della Giunta Regionale, per le comprensibili esigenze legate alla lotta contro la diffusione del virus.
Alcuni operatori del settore scalpitano per i mancati guadagni, nonostante gli incrementi di fatturato del 300/400% registrati in questo periodo. Altri, molto pochi per fortuna, quelli che hanno rialzato in queste settimane i prezzi, bramano la riapertura di domani, lavandosi la coscienza regalando alla bisogna, attrezzature medicali ad alcuni ospedali sardi e negando una mascherina ai loro collaboratori”.
Una domenica strana
“Il settore del commercio oggi servizio pubblico essenziale, quasi da sicurezza nazionale si contraddistingue per le singolari spigolature, colori e aneddoti.
Una domenica strana per tutti – ravvisa il sindacalista - l’ennesima di quarantena per tutti i sardi e per i tanti commessi oggi messi a riposo forzato.
Dove non è arrivata la cultura è arrivato il virus. Lontani dal brulichio del commercio domenicale, i bimbi che giocano tra le corsie e i clienti bramosi dell’acquisto; chiusi nelle case, riuniti benché senza i grandi pranzi di famiglia.
Sta di fatto – conclude Ardau nella lunga riflessione - che la giornata di oggi ci fa tornare indietro nel tempo, chiusi nelle case, nelle tante riflessioni interiori brutte e belle che il virus ci sta donando. E tra esse, una domenica del commercio fermata da un virus”.