Un albero di Natale svetta in mezzo alla rotatoria di piazza Sa Serra, là dove l'8 marzo scorso centinaia di scarpette rosse ricordavano il sangue di Dina Dore.

«Le luci ci sono, ma la voglia di fare festa non tanto», confida una signora che corre subito via con la comare. Sulle vetrine dei negozi e degli uffici che si affacciano in via Roma ci sono i manifesti col calendario degli eventi da qui all'Epifania, ma i vecchi che chiacchierano al sole assicurano che aria di festa a Gavoi non se ne vede. E non dev'essere tutta colpa della crisi. «Ma c'è anche Rocca stamattina?», si chiedono a vicenda.


NESSUN CURIOSO Ieri, mentre in via Sant'Antioco si teneva il sopralluogo della Corte d'assise nella casa del delitto, era come se il resto del paese fosse su un altro pianeta. Nessun curioso davanti alle transenne presidiate dai carabinieri; giusto il via vai delle auto lungo la strada principale, l'andirivieni frettoloso di chi faceva le commissioni, la passeggiata di pochissimi pensionati. «Noi stiamo aspettando la fine di questa storia», avvisa un'anziana mentre entra all'ufficio postale. Cinque anni da quando questa storia di sangue e dolore è cominciata. E nel frattempo, il paese che ospita un festival letterario ormai conosciuto in tutta Italia è finito dentro il romanzo criminale più nero. Un canovaccio di omertà, silenzi condivisi e rimorsi indelebili che qui però non era una finzione da pagine di carta. Per cinquantacinque mesi, dal marzo 2008 all'ottobre del 2012, il segreto sulla morte di Dina Dore si è sedimentato nella pancia della comunità, ha viaggiato su certe linee di frequenza, è stato custodito da diversi giovani ed è rovinato addosso a tante famiglie. Un magma malato e putrescente venuto fuori dopo la lettera anonima arrivata a Graziella Dore, sorella della vittima, in cui venivano indicati i nomi di Francesco Rocca e Pierpaolo Contu rispettivamente come mandante ed esecutore del delitto, nonché quelli di tanti giovani di Gavoi che «non c'entrano nulla ma sanno». Era cominciata così la stretta finale da parte della polizia. Decine di giovani vennero convocati in commissariato, più e più volte anche assieme ai loro genitori. Ma la storia che da anni viaggiava solo sui canali a tenuta stagna dell'omertà, lì sarebbe rimasta non fosse stato per un ragazzo, e soprattutto per il padre che confidò l'orrore a Rino Zurru, il cognato di Dina.


IL SUPERTESTIMONE «Ci sarà pure, in paese, chi ha criticato Antonio Lai. Ma una cosa, niente nome eh?, la voglio dire: non ce n'è tanti a Gavoi, di genitori così attenti e cittadini così impegnati», avverte una signora che rientra a casa col marito. Antonio Lai è il padre di Stefano, oggi il supertestimone del processo, il giovane che pochi giorni dopo il delitto aveva raccolto la confidenza dell'amico Pierpaolo Contu («L'ho uccisa io, me l'ha chiesto Francesco Rocca e mi ha promesso 250 mila euro») e che per più di quattro anni ha custodito il segreto. Il suo nome era tra quelli riferiti dall'anonimo che aveva scritto a Graziella Dore, indicato come colui che quel 26 marzo avrebbe accompagnato Contu all'appuntamento con Rocca. Bugie, ha chiarito il ragazzo che, accompagnato dal padre, nel novembre scorso ha raccontato agli inquirenti ciò che sapeva. Quel segreto che aveva riferito anche al babbo, anni prima, e che entrambi avevano taciuto. Per paura, quale altra spiegazione può esserci in una terra come la Barbagia?