PHOTO
I Neet sono i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono più ricompresi in un percorso scolastico, non partecipano ad attività formative/professionali e non lavorano, ovvero Not in Education, Employment or Training. Secondo i dati Istat diffusi dal rapporto Noi Italia 2014, in Italia i Neet sono oltre due milioni e costituiscono circa il 24% dei giovani. Si tratta di una porzione che supera in misura eccessiva la media europea, che si stanzia su un 15,9%, sintomatica di un malessere sociale che rischia di sfociare nella loro emarginazione collettiva.
Il fenomeno in Italia sembra intensificarsi con l’acuirsi della crisi economica, interessa in misura maggiore le donne e ha preso avvio dal meridione per poi estendersi a tutte le altre aree. Infatti è nel Mezzogiorno che il tasso di Neet raggiunge le quote più elevate e dove, anche storicamente, è congenita al territorio la difficoltà di accesso al mondo del lavoro. Sicilia e Campania sono, appunto, le regioni con le quote più elevate, con valori rispettivamente pari al 37,7% e 35,4%.
I Neet riuniscono due principali tipologie di inoccupati: i disoccupati e gli inattivi anche se la quota di inattività supera, ormai, quella dei disoccupati a testimonianza delle crescenti difficoltà di inserimento e di conseguente scoraggiamento. La scintilla è senz’altro l’abbandono scolastico precoce e il derivante basso livello di istruzione. Ulteriormente entrano in gioco altre variabili, sociali, educative ed economiche. Ad esempio, un giovane ha maggiori probabilità di diventare un Neet a causa dello svantaggio familiare, cioè se è figlio di genitori con un basso livello d’istruzione.
I Neet rischiano così di scivolare con fare abulico verso i margini della società e del mercato lavorativo e di diventare veri e propri macigni che peseranno giorno dopo giorno sul rilancio economico italiano, senza contribuire mai al sistema previdenziale. Sicuramente essi non godono del supporto attivo del welfare state, però sono anche oltremodo tollerati e giustificati a livello familiare.
L’inversione di tendenza può essere favorita innanzitutto scardinando la convinzione che l’istruzione tecnica è di serie B, mentre quella intellettuale è di serie A. Infatti un diplomato tecnico impiega meno tempo a trovare lavoro di un laureato che rischia, col passare del tempo, di acquisire competenze ormai obsolete per le aziende. Inoltre è assolutamente vitale favorire l’alternanza scuola – lavoro già al termine della terza media. Gli ammortizzatori sociali, infatti, hanno la funzione di sostenere ed aiutare chi è uscito dal mondo del lavoro, ma nulla è previsto per chi non è riuscito neanche ad entrarci. L’esclusione può essere arginata grazie a strumenti simili all’apprendistato, che aiutano sia i giovani che le imprese.
Oltre a tutto ciò è necessario che si smetta di considerare un trentenne ancora come un ragazzino che ha diritto alla paghetta e a vivere protetto nella campana di vetro della famiglia, discolpato dalle sue mancanze perché intanto “lavoro non ce n’è!”. Così si zavorra il futuro dei giovani meno disinvolti e caparbi e si contribuisce alla loro marginalizzazione. Infatti maggiore è l’aiuto della famiglia, maggiore è la quota di neet, un preoccupante 44%, che dichiara di non avere tentato nulla per sbloccare la propria situazione. Fra essi poi un buon 14% dichiara di provare di tutto in via sistematica, mentre un allarmante 16% ammette di non rifare nemmeno il proprio letto.