PHOTO
Difendere fino all’ultimo, per scelta, i baluardi di uno Stato democratico non è solo un atto di coraggio, ma di puro eroismo.
“Andrò fino in fondo”. In questa espressione è racchiusa la forza morale del procuratore generale della Repubblica Francesco Coco. Parole, quelle del magistrato, rivolte al presidente della Repubblica, Giovanni Leone, quando è chiamato dal Quirinale in merito ai ricatti delle Brigate Rosse per rimettere in libertà il giudice Mario Sossi, liberato senza contropartita per la dura opposizione di Coco alle trattative con lo Stato. La strada dell’intransigenza rappresenta, però, la sua condanna a morte.
Sono circa le 13:30, a Genova, quando, in quel lunedì assolato e funesto dell’ 8 giugno 1976, il procuratore, 67 anni, viene assassinato dalle Brigate Rosse. Il magistrato è appena sceso dalla macchina di servizio e sta salendo sulla scalinata di via Santa Brigida. Con lui il carabiniere Giovanni Saponara, mentre l’autista, Antioco Deiana, appuntato dei Carabinieri di Ardauli, si ferma a un centinaio di metri più avanti.
Improvvisamente, in un’azione fulminea, due uomini, apparentemente semplici passanti, scatenano sul magistrato e sul militare un inferno di fuoco. I due servitori dello Stato muoiono all’istante, senza aver avuto neanche il tempo di una benché minima difesa.
Subito dopo, altri due uomini delle Br si avvicinano all’auto blu di servizio e sparano contro l’autista, ignaro della tragedia appena consumata, uccidendolo con una selva di proiettili.
L’omicidio del magistrato e della sua scorta segna l’inizio di una delle stagioni più buie e strazianti della nostra Repubblica. Passano circa 2 anni dalle morti di Genova e lo spargimento di sangue causato dalle Brigate Rosse continua con un altro attacco al cuore dello Stato: il sequestro e la morte di Aldo Moro.