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Colonnello Branca, il presidente della Regione Pigliaru ha chiesto al Governo la dismissione della base di Capo Teulada, che lei comanda da due anni. Cosa accadrebbe?
«Semplice, l'Italia non potrebbe più partecipare a missioni all'estero».
Il mega-poligono sardo è così importante per l'Esercito?
«Qui da noi arrivano ventimila soldati ogni anno, ed è l'unico poligono italiano per l'addestramento dei militari destinati alle missioni all'estero».
Capo Teulada, allora, non si tocca?
«Questo non dipende da noi. Spetta alla politica e alle istituzioni decidere, noi eseguiamo gli ordini».
Sa Portedda, caserma Pisano: doppi cancelli, guardie armate, muraglioni e robuste reti sormontate dal filo spinato proteggono i 7200 ettari del poligono militare più grande d'Italia. Eppure, non è bastato ad evitare la pioggia di bombe mediatiche e di polemiche che negli ultimi tempi ha investito la base militare. Inutile, anzi dannosa, devastante, pericolosa per le persone e per l'ambiente, ingombrante, inaccessibile, schermo tattico di imbarazzanti segreti. Si dice, insomma, di tutto e di più su questa immensa distesa che occupa l'appendice meridionale della Sardegna blindando scenari mozzafiato di spiagge bianche e scogliere da vertigine.
Nel 1959 lo Stato decise che quell'incantevole scenario doveva diventare un teatro di guerre simulate. Scattò l'esproprio dei terreni: si opposero soltanto 13 dei 232 proprietari. Quelle terre allora non valevano nulla: prezzo di mercato 10 mila lire a ettaro, lo Stato li pagò a 208 mila lire, 20 volte tanto. Oggi sarebbero vendute a peso d'oro. Sono seguiti 55 anni di bombe e cannonate, missili e mitragliate, assalti a terra e sbarchi dal mare. È così che quella di Capo Teulada è diventata, come spiega il colonnello Sandro Branca , «la principale area addestrativa d'Italia, l'unica dove è possibile organizzare attività addestrative complesse che consentono di usare tutte le armi e gli strumenti che sono a disposizione nel teatro operativo». Insomma, aggiunge l'ufficiale, a Teulada «si riesce a ricostruire il teatro operativo che ci troviamo nelle missioni di pace all'estero, il tutto in un territorio del Demanio, che è cosa ben diversa dalla servitù militare».
Per la verità questo esproprio in nome del popolo italiano il Sulcis e i sardi non l'hanno mai digerito. Immolare colline e vallate, spiagge e scogliere con annessi ampi lembi di mare sull'altare della Patria ha provocato a più riprese ondate di antimilitarismo. I soldati si sono sentiti nel mirino, come accerchiati nella loro base circondata dal filo spinato.
Le bombe inquinano? Di certo non sono una carezza per il territorio. Senza considerare che, alle prime cannonate i turisti fuggono a gambe levate. E siamo al primo effetto collaterale: l'ambiente violato. «Inquinamento? La base è un'oasi naturale»: replica decisa del comandante Branca.
È quello che sostenete voi militari.
«Con cognizione di causa: non ci sono proiettili inesplosi in giro, eseguiamo sempre le bonifiche operative, ci sono gli osservatori che controllano i colpi, e, poi, non utilizziamo munizionamento esplodente, non c'è niente da bonificare e non abbiamo spianato nuraghi».
Il tutto avviene, però, nel chiuso di una base militare. Chi vi controlla?
«L'idea che qui viga il principio della extraterritorialità è errata: l'Asl e l'Arpas possono inviare i propri tecnici quando vogliono ed effettuare i controlli che ritengono più opportuni».