“Nei miei libri non c'è nulla di non autobiografico. Mia nonna, però, non è morta ed è una fortuna che non sappia leggere l'italiano”. Con la stessa ironia presente nel suo ultimo lavoro, Elvira Mujcic si presenta all'evento cagliaritano organizzato dall'associazione “Gentemesu”.

In occasione della “Giornata Commemorativa Europea del Genocidio di Srebrenica”, la scrittrice introduce il suo quarto libro intitolato “Dieci prugne ai fascisti”. Nelle sue pagine, si articola la vicenda di una famiglia bosniaca emigrata in Italia, intenzionata a rispettare il desiderio della nonna: essere sepolta nella terra natia. Si innesca cosi, un viaggio a ritroso verso un paese che non esiste più, immutato solo negli occhi di chi è andato via.

“Ho usato un registro comico per disattendere le attese, stimolando comunque una seria riflessione diversa dagli altri miei testi. Per leggere di Srebrenica, occorre arrivare alla pagina cento”.

Elvira Mujcic con questo testo, sdogana l'ironia per raccontare quanto di drammatico è successo oltre il mar Adriatico nei primi anni '90. Pur essendo nata in Serbia nel 1980, lei stessa ha vissuto a Srebrenica sino ai giorni dell'assedio. Scampata alla morte, insieme alla sua famiglia, ha trovato rifugio in un campo profughi croato prima di raggiungere il suolo italiano.

Sebbene un forte accento bresciano, la sua vita è a Roma e nei suoi libri è forte il riferimento ai traumi del post guerra.

“Sono italiana? Sono bosniaca? I miei fratelli parlano il dialetto bresciano e hanno ottenuto la cittadinanza italiana tre anni dopo me e mia madre.” In merito al suo posto nel mondo, l'autrice de “La lingua di Ana”, ritiene che “lo spazio in cui mi sento a casa è sul traghetto da Ancona a Spalato”.

E in un tempo in cui forti spirano i venti nazionalistici, per la scrittrice “ricercare l'identità è una forma di violenza. In Jugoslavia, potevi essere di qualsiasi religione. Poi siamo diventati croati, serbi, sloveni e bosniaci. Questi ultimi poi, sono diventati bosniaci”.

Una storia da non dimenticare, da raccontare nelle scuole talvolta con simpatia. ”Grazie alla mia memoria, pilastro della mia vita, con la storia posso permettermi di giocarci. I ragazzi non amano la retorica, vogliono i fatti”.