“E se vuoi un Carnevale che non ce n'è un altro sulla terra,?vattene a Mamoiada?vedrai l'armento con maschere di legno,?l'armento muto e prigioniero,?i vecchi vinti,?i giovani vincitori,?un Carnevale triste,?un Carnevale delle Ceneri,?storia e misura di ogni giorno,?gioia condita con un pò di fiele e aceto,?miele amaro”.

Tratto da “Miele amaro”  di  Salvatore Cambosu

 

Dietro la Maschera

 

Attraversare il Carnevale di Mamoiada equivale ad un volo leggero tra le ali di un passato senza tempo e senza confini di significato. Il mistero e la suggestione immortalano le maschere nere di pero selvatico, asciugano il fascino e si trasformano in un segnale di identità:: qui soltanto e in nessun altro altrove.

Il Carnevale di Mamoiada è un suono scandito. E’ un ritmo cadenzato dove tutto si muove e si ferma simultaneamente. Un percorso misurato che rapisce e ti avvolge. Totalmente.

I libri che trattano l’argomento, l’hanno raccontato in tutte le sue forme: tra ipotesi ordinate  e percorsi antropologici immagini che documentano e diffuse credenze,  teorie e tradizione.

Ho pensato di raccogliere le voci del presente: di coloro che indossano la maschera come una seconda pelle, di coloro che dedicano tanto del loro tempo a conservare e diffondere l’identità unica che il tempo ha consegnato.

Ho pensato di ascoltare  i mamuthones e gli  issohadores, attori attivi degli antichi riti pagani, “dietro la maschera”.

Sulle tracce dei ricordi c’è tanto del loro crescere a Mamoiada, “dentro la storia”, vivendo “la storia”.

Gesuino Gregu vive ad Assemini, soltanto perché il suo lavoro lo costringe, ma le fughe nel paese della Barbagia sono frequenti, come il suo ritornare indietro con la memoria:

“Da ragazzini rovistavamo nelle vecchie case, entravamo di nascosto alla ricerca di qualcosa che potesse servire a completare la figura dei mamuthones. Non era facile trovare gli abiti da indossare, ci si metteva addosso quello che si trovava e prima di riuscire a formare una “carriga” (insieme di campanacci), ne combinavamo di ogni colore: quando riuscivamo a trovare anche un solo campanaccio, la soddisfazione era immensa”.

Nasce così, come il sangue che scorre, la forza dell’appartenenza: “gli anziani del paese erano il nostro punto di riferimento e uscire con loro, nei primi anni Settanta, era motivo di orgoglio. Non potevamo entrare nemmeno nei bar, quindi poter apprendere il loro insegnamento, per noi era un’aspirazione enorme. Ricordo che quando ci portavano con loro, durante la sfilata, creavano una terza fila (che oggi non esiste più), mettendoci in mezzo per essere guidati al meglio”.

Una foto del 1973 immortala l’esordio “in maschera” del giovane Mario Mameli. La passione fluisce dalle labbra del ricordo, che si rivela inedito ogni volta che ritorna: “ognuno di noi ha avuto un parente che “prima” di noi ha vestito i panni del “mamuthone”. Mio padre lo è stato e io ho voluto seguire le sue orme, così come mio fratello, capace anche di costruire le maschere. Rimane in me un interrogativo acceso: non ho mai capito per quale motivo mio nonno non ha mai alimentato questa tradizione”.

Guardo le pareti di una vecchia cantina, foto sparse qua e la, maschere che ti fissano.

L’odore e il gusto di un buon vino locale si accompagnano alle parole dei cinque amici che mi accolgono. Interviene Antonello Congiu “Pazzaorju”, che il giorno prima dell’uscita dei &