La narrativa deleddiana può vantare, nel suo insieme, un corpus invidiabile: decine, anzi centinaia fra romanzi, novelle, raccolte di poesie e scritti dell'autrice barbaricina. Se da un lato capolavori acclamati dalla critica come Canne al vento, L'edera, Elias Portolu o Cosima sono ancora oggi oggetto di studio e analisi, dall'altro alcune opere rimangono ingiustamente eclissate all'ombra di una produzione letteraria rigogliosa, poco note al vasto pubblico di lettori. E' il caso del romanzo Nel deserto, uno dei racconti meno intimamente compresi di Grazia Deledda. Nel deserto scava nel fondo del pensiero della scrittrice nuorese, fino a marcare un solco, una traccia profonda, conferendo una connotazione fortemente identitaria alla stessa storia della Deledda. 

TEMI E MOTIVI. Venne pubblicato per la prima volta il 16 febbraio 1911, comparendo a puntate sulle pagine della Nuova Antologia e nello stesso anno venne edito dai Fratelli Treves a Milano. Per le tematiche trattate, Nel deserto rientra a buon diritto nel novero dei romanzi autobiografici della Deledda fra i quali, peraltro, rimane uno dei meno fortunati. Lavoro in parte snobbato dalla critica, poco letto e “chiacchierato” dal pubblico, non riscuoterà mai il successo sperato, come avvenne anche per altri racconti della scrittrice barbaricina, soprattutto quelli degli esordi giovanili. L’opera si colloca nel periodo di piena maturità artistica della Deledda, arrivando dopo i successi segnati a inizio secolo da Elias Portolu, Cenere e L’edera, e precede di poco Colombi e sparvieri e Canne al vento del 1912 e ‘13. È proprio in questa fase che la scrittrice riesce a trasmettere pienamente la sua poetica, in un vortice di personaggi e vicende che trascinano il lettore nell’inquieto e originale mondo deleddiano del quale Nel deserto raccoglie molti temi classici: la famiglia decaduta e le differenze di ceto o di censo; la distanza fra due mondi – giovani e vecchi – nella dinamica di un mondo che invece procede spedito; il passaggio di una giovane donna dal microcosmo valoriale sardo, agropastorale e tradizionale al macrocosmo borghese-urbano-individualista; il conflitto interiore fra bene e male e il perenne contrasto fra volontà individuale e destino; l’avvicendarsi di esistenze turbinose e il senso di inadeguatezza, con il ricorrente intreccio dell’elemento passionale e dei conflitti amorosi. 

LA "QUESTIONE SARDA". Se è vero che dal romanzo emerge con chiarezza quasi tutto ciò che di essenziale trasmette nel suo insieme il corpus deleddiano, diventa irrinunciabile domandarsi quali fattori abbiano fatto sì che esso rimanesse fuori dal canone delle grandi opere dell’autrice che tutt’oggi continuano a riscuotere grande interesse fra critici e storici letterari. Nella sua prefazione a Nel deserto, Giulio Angioni indica come possibile causa di ciò l’assenza, o la presenza meno importante, dell’elemento che si può dire abbia fatto in misura prevalente la fortuna della narrativa deleddiana nel mondo, ossia il legame con la Sardegna. La parziale distanza che si registra rispetto ad altri romanzi da quel mondo ancestrale e da quella sua terra incontaminata, che la Deledda più di tutti ha saputo raccontare, avrebbe comportato in qualche modo per l’opera in questione un minor appeal, ed esercitato una più sbiadita attrattiva nella platea dei lettori.

TRAMA. Il romanzo racconta le vicende di Lia Asquer, giovane orfana che vive con la zia Gaina in un piccolo paesello della Sardegna. A spezzare la monotonia della quotidianità sopraggiunge una lettera indirizzata proprio a Lia dallo zio Luisi, malato e in pensione, che chiede alla nipote di andare a vivere con lui a Roma. Nonostante i tentativi della zia di far desistere la giovane dal richiamo della capitale, quest’ultima, spinta da un senso di incompiutezza, abbandonerà l’Isola per cercare fortune in quel mondo. A Roma, lo zio si rivela essere scorbutico, pessimista e irascibile, differente dall’uomo affettuoso mostratosi precedentemente nelle lettere. La protagonista, tuttavia, se ne prende cura assistendolo fino alla morte e trova, nel frattempo, l’amore nella persona di Justo, vedovo e con un figlio, che decide di sposare nonostante la disapprovazione dello zio. In seguito a questo “sgarbo”, Lia si convincerà del fatto che questi l’abbia diseredata in punto di morte in favore della serva Costantina. Dopo qualche tempo, Justo muore lasciando Lia sola con i figli. Vedova e disillusa in una città dove non trova gli stimoli che anelava decide di tornare a vivere in Sardegna, dalla zia Gaina. È proprio qui che un evento ormai inaspettato porrà fine alle sue ristrettezze economiche: lo zio Luisi ha lasciato alla nipote una grossa eredità. Ma ormai è tardi, il suo destino è compiuto. Col cuore lacerato e l’anima ferita, Lia non si scrollerà mai più quel senso di esilio e di ineluttabilità insito in lei, accompagnata dai fantasmi del suo passato.

GRAZIA FRA DUE MONDI. Il passaggio dal piccolo borgo isolano alla grande città mette in risalto la netta evoluzione sociale marcata da quest’ultima, che lascia indietro chiunque non rimanga al passo coi ritmi e le esigenze della modernità. Roma, per quanto grande e dinamica, paradossalmente appare alla protagonista come un deserto urbano. Inevitabile constatare un parallelo con la vita dell’autrice stessa, trapiantata dalla Sardegna a Roma, dove andrà a vivere insieme al marito con due figli maschi. L’iniziale stupore negli occhi di Lia Asquer, ammaliata dalle meraviglie capitoline, è lo stesso che dovette avvertire la Deledda, che provava un sentimento profondo per la città eterna. In quel nostos finale di Lia rispetto alla terra natia può rintracciarsi un ulteriore elemento autobiografico di Grazia, che certamente avrà in qualche occasione vagheggiato un ritorno nell’Isola. Così come avviene nei protagonisti di altri suoi romanzi e novelle, anche in Lia Asquer la Deledda traspone alcuni tratti della sua inquieta femminilità. 

Nell’evidenza autobiografica di alcuni suoi romanzi, la scrittrice non racconta solo sé stessa, ma veicola in modo potente ed efficace la sardità barbaricina e la Sardegna più verace, fino ad allora una quasi enclave etnico culturale sconosciuta al pubblico medio che attraverso la sua narrazione dirompe in tutta la sua forza. La potenza descrittiva con cui stabilisce una connessione narrativa tra mondi e habitat così distanti e incompatibili è uno dei meriti più significativi della scrittrice sarda, che le varrà del resto anche il Nobel per la letteratura del 1926. Un’evocativa immagine, a tal proposito, è stata delineata da Dino Manca, professore di Filologia della letteratura italiana, Storia della lingua italiana e Letteratura e filologia in Sardegna presso l'Università di Sassari, quando nell’introduzione all’edizione critica di Cosima scrive che «La narrativa della Deledda superò non senza difficoltà e contraddizioni, il capo Horn dall’anacronismo, dell’affettazione e della desuetudine nobilitante, per meglio affrontare il mare aperto del grande e variegato pubblico italiano. Le trame e i personaggi dei suoi romanzi, infatti, a un lettore contemporaneo possono anche non piacere, ma sono linguisticamente attuali, nel senso che sono ancora oggi leggibili e comprensibili».

FRA SIMBOLOGIA E REALTA'. Ecco, appunto, la potenza di scrittrice che emerge principalmente nei suoi romanzi per così dire “sardi”, agli occhi del lettore viene un po’ a scemare nei romanzi “non sardi”. Non è superfluo, dunque, ribadire come questo appaia come uno dei motivi per cui Nel deserto – che sì è un romanzo autobiografico, ma che sposta il suo epicentro a Roma sottraendolo a quell’iconico mondo isolano-agropastorale – non riesce a far breccia nel cuore del grande pubblico. Eppure, a ben vedere, nonostante la scrittrice in questo caso sposti gran parte della narrazione nel teatro urbano della Capitale, il romanzo conserva integra l'impronta delle atmosfere isolane, con cui esso si apre e a cui tornerà nel suo epilogo. Quel “deserto” a cui fa riferimento il titolo è un luogo dell’anima. Lia vi smarrisce sé stessa e tutto intorno a lei si fa vuoto e indecifrabile. Solo la speranza nel futuro dei figli, Salvador e Nino, sembra ravvivare di tanto in tanto la mestizia della protagonista. Un futuro che per sé stessa, la donna, vede comunque già segnato. Ne emerge che qualunque sia lo scenario – la campagna o la città, il villaggio in Sardegna o la Capitale – non potrà mai cambiare la percezione che gli individui sviluppano rispetto ad esso. E se prima, nel deserto della sua dimora in Sardegna, Lia si sentiva soffocare, circondata dalla desolazione di quel piccolo universo e angosciata dalla prospettiva di un avvenire che in quella comunità ferma nel tempo sembra non esistere, una volta giunta a Roma si smarrisce nel deserto della città, che col suo travolgente progresso diventa luogo di perdizione. 

ECO DI SARDEGNA. L’insuccesso immeritato di Nel deserto, in sostanza, pare dovuto in maniera significativa all’affievolirsi della minuziosa e suggestiva impronta ambientale isolana della sua narrativa. Nella temperie culturale novecentesca, che vede il sorgere di una variegata e innovativa produzione letteraria, atta a progredire e talvolta trasgredire dal canone classico, la Deledda si impone come punto di riferimento di una rappresentazione caratterizzante il mondo rurale e i suoi personaggi. Cosicché, la trasmigrazione di questi ultimi in una realtà urbana disattende il lettore uso a trovare nelle pagine della scrittrice nuorese quelle atmosfere che contraddistinguevano i precedenti romanzi isolani. Lì, dove luoghi atavici erano stati raccontati attraverso lo sguardo dei personaggi autoctoni e le credenze e i miti apotropaici propri di una tradizione millenaria prendevano forma.

Se è pur vero che in Nel deserto l’autrice si lascia alle spalle quei luoghi evocati dalla sua più tipica narrazione, va però detto che non li abbandona del tutto, incentrando semmai l’attenzione sui protagonisti, col paesaggio nativo che fa da sfondo e insieme al nuovo scenario urbano diventa richiamo degli stati d’animo degli stessi, mettendo a nudo la costitutiva simbiosi uomo-natura-ambiente. Se ne può trarre la conclusione che, nonostante la scelta – che è quasi un’esigenza di strategia narrativa e letteraria della scrittrice – di allontanarsi dalla comfort zone originaria della sua produzione, Grazia riesce ad ogni modo a rimanere fedele a sé stessa e alla sua visione, in un’opera che porta a un’attenta riflessione sulla natura delle cose e che ben si colloca in un’epoca di smarrimento ideale, di incertezze latenti e di crisi come quella primonovecentesca.