L’origine della figura de sa femina accabadòra in Sardegna si perde nella notte dei tempi, mescolando elementi di mito e realtà. Il termine accabadòra, o agabbadòra significa letteralmente "colei che finisce", e deriva dal sardo s'acabbu (la fine) o dallo spagnolo acabar (terminare).

Il personaggio a cui fa riferimento, e la cui esistenza non è storicamente comprovata, è una donna che nelle comunità del centro Sardegna si sarebbe incaricata di favorire il trapasso di persone malate e già di per sé moribonde su richiesta dei familiari o della medesima vittima. Una pratica estrema che nelle intenzioni delle persone coinvolte doveva essere un atto di pietà, una sorta di eutanasia ante litteram della cui reale pratica non esistono prove sebbene in Gallura, nel Museo etnografico di Luras, è conservato un matzolu (martello di legno di olivo selvatico) che sarebbe appartenuto ad una donna che operava come levatrice e come accabadora fino agli anni ’40 del secolo scorso. Oltre a placare le sofferenze del malato, l’intervento della donna avrebbe eliminato anche quello che per le famiglie di una società rurale poteva diventare un problema economico: le cure costose e impegnative. L’accabadora avrebbe agito senza alcun compenso, poiché il pagamento della morte sarebbe andato contro la morale comune e i dettami religiosi.

GLI STRUMENTI. Secondo la leggenda, la donna si sarebbe presentata al capezzale della vittima designata vestita di nero, con il volto coperto, uccidendo il morente tramite soffocamento con un cuscino, oppure colpendolo sulla fronte tramite un bastone d'olivo (su matzolu) o dietro la nuca con un colpo secco, o, ancora, strangolandolo ponendo il collo tra le sue gambe. Lo strumento simbolo della pratica de s’acabbu sarebbe stato proprio il martello di legno. Secondo altre versioni, un piccolo giogo in miniatura veniva adagiato sotto il cuscino del moribondo, al fine di alleviare la sua agonia. Questo perché era credenza comune che l’uomo fosse costretto a subire una lenta e dolorosa pena in punto di morte. Se l’anima non voleva abbandonare il corpo malato, significava che la vittima si era macchiata in vita di un crimine vergognoso, e dunque il sopraggiungere della morte andava reso più immediato da s’accabadora. Dalla stanza del moribondo, inoltre, venivano rimosse tutte le immagini sacre e gli oggetti a lui cari nell’idea di rendere più semplice e meno traumatico il distacco dello spirito dal corpo.

FRA MITO E REALTA’. Come detto, non esiste unanimità da parte di storici e studiosi sull’effettiva esistenza di una figura del genere e la mancanza di prove alimenta l’aura di mistero attorno a s’accabadora. Secondo alcuni antropologi, più che una donna incaricata di portare morte esistevano gruppi di donne che portavano conforto nelle famiglie dove c'era una persona agonizzante, accompagnando il malcapitato fino all'ultimo istante. Si occupavano dunque si sostenere la persona malata e i suoi familiari nelle ore più tristi e, per questo motivo, godevano della riconoscenza e del rispetto della comunità, ma non si occupavano di uccidere il malato.

Insomma, la credulità popolare avrebbe assorbito la storia di una figura inesistente attingendo da una realtà ben diversa elementi poi distorti ed esagerati nei classici contos de foghile (i racconti che si facevano attorno al focolare domestico tra aneddoti verosimili e miti trasmessi oralmente).

Secondo l’antropologo Francesco Alziator, il compito dell'acabbadora non era tanto quello di mettere fine alle sofferenze con l'utilizzo di uno strumento macabro e inquietante, quanto quello di cercare di accompagnare le persone alla fine della loro agonia tramite riti di cui si è persa la memoria. Lo stesso studioso cagliaritano era consapevole di maneggiare un argomento che si avvicinava alla leggenda e non forniva prove certe dell'esistenza della figura femminile. Alziator, nei suoi studi, raccontava poi del profondo riserbo della Chiesa rispetto all’eventuale esistenza de s’accabadora.