PHOTO
Cercate Il cielo in una stanza di Gino Paoli e ascoltatela. Immergetevi nell’anno di nascita di questa canzone e provate a ricordare (per chi quegli anni li avesse vissuti) o immaginare (per chi invece non lo sapesse) quel periodo, divenuto storico. Era l’anno della speranza in tutto il Paese, era l’anno del boom economico italiano. A livello sociale, disoccupazione, povertà e analfabetismo andavano scomparendo. Era l’anno della Fiat 600 e la Lancia Flavia come auto più vendute, della Juventus campioni d’Italia, del Musichiere in tv.
Proprio in quell’anno, in una piccola casetta al centro di Ittiri in provincia di Sassari, abitava una coppia con i loro quattro figli. Tra loro il primo maschietto, tanto desiderato, di appena tre anni. Proprio con quest’ultimo mamma Antonia decise di avventurarsi in un viaggio verso Cagliari, e per quella che al tempo in Sardegna, rappresentava una grande metropoli. Al contrario del suo piccolo paese vi erano strade asfaltate e larghe, donne alla guida delle macchine e un grande ospedale che potesse curare la malattia di suo marito Tonino. Per Antonia l’italiano non era la sua lingua madre: in paese e in casa non era necessario utilizzarlo. Lo imparò nei pochi anni di elementari frequentati a scuola e affinò il vocabolario attraverso la radio e la televisione. Insomma, la protagonista della nostra storia era abituata a interloquire in ittirese dalla nascita.
Quando si decide di lasciare il proprio nido s’incontrano altre culture, nuovi linguaggi e modi di vivere, avviene oggi proprio come a quel tempo. Appare inverosimile che avvenisse in Sardegna e che vi fossero così tante differenze tra due luoghi posti agli estremi geograficamente, nella stessa regione, ma Elisabetta e le sue sorelle ci hanno raccontato una storia che, nella loro famiglia, è divenuta una vera e propria barzelletta.
“Mia madre prese il pullman per raggiungere nostro padre ricoverato a Cagliari. All’epoca era consentito fumarci dentro e il confort non era esattamente quello che noi conosciamo. Con sé teneva bagagli e viveri per mio fratello. Fu lui durante il viaggio a rovesciare una bottiglietta di acqua sulla gonna di mia madre.
Una volta arrivati a Cagliari, mia madre provò a scendere dal pullman. In seria difficoltà tra bagagli e bambino piccolo (e con la gonna bagnata) venne notata da un giovane cagliaritano. Il ragazzo, intento ad aiutare i passeggeri ad abbandonare il mezzo, le urlò: “Mi deppisi aggiantai su pippiu”. Mia madre si paralizzò. Guardò il giovane, poi la gente intorno a lei. “Senora su pippiu” sentì nuovamente con tono più alto – Elisabetta ride – mia madre era incredula perché nel nostro dialetto ittirese “su pippiu” era… come dire… - ride di nuovo - era un termine utilizzato per indicare l’organo riproduttivo femminile.” Antonia, provando ad immaginare cosa le stesse dicendo quel ragazzo, pensò che il giovane le stesse facendo notare che si fosse fatta la pipì addosso. “Per sciogliere l’imbarazzo intervenne una donna che, indicando il piccolo Biagio, disse “su pippiu, il bambino”. Mia madre rise di gusto senza esser compresa e trasformò questo “insolito episodio” nella barzelletta preferita di noi figlie.”
Ed oggi sono loro a raccontarla “Nostra madre era una donna profondamente ironica. Amava ridere e farci ridere. Questo è uno dei nostri racconti preferiti. Parla di una donna coraggiosa che parte da sola in pullman per raggiungere un marito malato dall’altra parte della Sardegna e con un bambino molto piccolo. Ha attraversato un’Isola che non era come oggi la conosciamo; dove ovunque si parlava il proprio dialetto di appartenenza e, alle volte, sembrava davvero di esser capitata dall’altra parte del mondo”