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Ogni volta che torniamo, aspettiamo con ansia il momento dello sbarco. Ci coglie questo sentimento, che si scioglie poi nel sollievo, sentendo sotto i piedi la nostra terra.
Nel momento della partenza, invece, il magone ci assale. Figuriamoci com'era un tempo, quando "zumpare su mare!" era un fatto eccezionale, un salto verso l'ignoto. E' un timore antico, da isolani, che ci portiamo dentro. Un timore che è diventato paura e dolore per centinaia di migliaia di persone in questo dopoguerra, quando hanno preso la strada dell'emigrazione. Migliaia di storie: ognuno ha i suoi ricordi, la sua personale esperienza.
La maggior parte per un drammatico bisogno di lavoro, altri per spirito di cambiamento e di avventura; molti per l'una e per l'altra cosa insieme. Allora partiamo dalla memoria, dal ricordo e dal dolore. Rendiamo giustizia prima di tutto a quanti si sono sacrificati; giudichiamo anche la nostra storia con spirito critico, ma positivo. Dobbiamo fare un bilancio di questa stagione, durata 60 anni, che è ormai alle nostre spalle, vedendo aspetti positivi e negativi; i cambiamenti sopravvenuti e le conseguenze; come sono cambiati quelli che sono rimasti e quelli che sono partiti. Oggi, ritorniamo alla nostra terra con stato d'animo sereno. In passato, molti emigrati hanno mischiato sentimenti di amore e di rancore.
Non era facile, spesso non si avevano neanche l'esperienza, la saggezza o gli strumenti culturali per capire la durezza dei processi storici. Quando si partiva sembrava di essere scacciati, si vedeva una discriminazione rispetto a chi, fortunato, poteva rimanere; ci si sentiva figliastri più che figli, si viveva con terrore lo sradicamento di sentimenti, di abitudini e di affetti. Era dura per chiunque passare da una società agropastorale a modi di vita, costumi cittadini, lavori, ritmi, da civiltà industriale. Quanto era duro emigrare!
Così si presenta Filippo Soggiu, classe 1927 originario di Buddusò, uno dei personaggi di spicco dell’emigrazione sarda organizzatain Italia. Ha lasciato l’isola da più di 50 anni e da allora si è sempre impegnato per la migrazione organizzata. E’ stato per diverso anni presidente della FASI. Le lotte per ottenere agevolazioni nei trasporti da e per l’isola, sono sempre state il suo cavallo di battaglia. Quanti ricordi, quante storie avrebbe da raccontare quest’uomo che al mondo dell’emigrazione sarda ha dato tanto.
Ho lasciato la Sardegna nel marzo del 1956. In Sardegna lavoravo come autista in una autolinea di Gran Turismo con sede a Carbonia. Era un lavoro che mi piaceva: viaggiavo da un capo all’altro della Sardegna portando i primi turisti organizzati in gruppi nei luoghi più belli delle coste e dell’interno. Era una Sardegna diversa da quella di oggi: pulita, incontaminata che non aveva ancora subito l’aggressione selvaggia di quella speculazione edilizia sconsiderata che oggi vedo con immense tristezza. Sono poi emigrato perché il mio datore di lavoro è stato costretto a licenziare tutto il personale, non essendo riuscito ad ottenere quei contributi regionali che gli avrebbero consentito di risanare l’azienda in crisi.
Altre possibilità di trovare lavoro in Sardegna non esistevano, come non esistevano gli ammortizzatori sociali che permettessero di vivere e pensare con calma al proprio futuro. In quegli anni, se non avevi lavoro eri alla fame; non c’era altra scelta che raccogliere i propri stracci e partire.
Qual è stata la prima destinazione? Mi sono fermato a Pavia, dove sono stato preceduto da una sorella che mi ha trovato un posto di lavoro, sempre come autista. E dopo tre anni mi sono sposato con una ragazza del mio paese, di Buddusò. Insieme abbiamo formato la famiglia, con due figlie sposate e sono ormai nonno di bellissimi nipotini.
E’ stato complicato inserirsi nell’ambiente continentale? Ho faticato ad adattarmi alle temperature del nord Italia. Per me, che ho viaggiato per tutta la Sardegna, sotto un cielo quasi sempre azzurro e con un sole più o meno cocente, passare alle fitt