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In pochi prestano attenzione ai lavoratori della Roockwool, che le cronache degli ultimi giorni ci dicono essere da tempo asserragliati all'interno della miniera di Santa Maria a Monteponi, in quel di Iglesias. L'opinione pubblica si è talmente assuefatta a tali notizie, che quasi non fa più caso alle drammatiche storie che questi individui rappresentano.
Eurallumina, Alcoa, Legler, Sardinia Gold Mining, Montefibre, Ineos, Sices, Keller e via di questo passo nell'elencare tutte le realtà industriali che in questi ultimi anni hanno fatto capolino, chiudendo i battenti nell'isola. Tutte “delocalizzano”: questo il termine che indica il trasferire altrove gli impianti di produzione. Questo altrove indica quasi sempre quei paesi emergenti dove la manodopera costa meno, le norme sulla sicurezza inesistenti, o comunque meno stringenti, un diritto maggiormente severo con gli insolventi, ma sopratutto una moneta svalutata che permette di vendere facilmente al resto del mondo.
La Legler contava 3 stabilimenti: Macomer, Ottana e Siniscola: totale 900 dipendenti. Anche considerando che in Italia è proibita la bigamia e che le nascite sono ormai ridotte all'osso, stiamo parlando comunque di almeno 3000 persone coinvolte. 900 dipendenti a casa di qua, 300 di là e voilà: ecco migliaia di posti di lavoro in fumo. Ai quali conseguono migliaia di persone con difficoltà a mettere qualcosa sul tavolo apparecchiato e centinaia di migliaia che tirano la cinghia.
Non stiamo esagerando con le cifre tanto per far notizia, esse vengono fuori calcolando anche quegli individui che fanno parte di quella misteriosa parola, utilizzata veramente poco e male dai media: l'indotto. Questo termine spesso confinato in mezzo ad un mare di parole che relegano in un angolino una realtà ben più vasta e importante.
Ogni qual volta una fabbrica chiude, i vari governanti e sindacati di turno si affrettano a tranquillizzare l'opinione pubblica, dicendo che i dipendenti verranno in qualche modo ricollocati e che comunque gli ammortizzatori sociali attenueranno il problema. E l'indotto? Tutto tace, mai una parola, ma sopratutto, mai una soluzione. Eppure spesso è proprio questa parola misteriosa che subisce la maggior parte del danno conseguente la chiusura di uno stabilimento.
L'indotto potremo dividerlo in anelli: al primo abbiamo imprese di energia, manutenzione e servizi che spesso contano nelle loro fila centinaia di dipendenti cadauna. Aziende esterne che spesso sono il motore attraverso il quale funzionano le grosse fabbriche. Al secondo troviamo le aziende fornitrici di quelle imprese che abbiamo detto del primo livello. Qui il ventaglio si allarga notevolmente: oltre quelli prettamente industriali, fanno parte di questo anello la fornitura di materiali elettrici, elettromeccanici, idraulici, abbigliamento, alimentari, cancelleria, informatica e cosi via, oltre artigiani che spesso lavorano in subappalto e collaboratori che prestano vari servizi di cui tali imprese esterne necessitano.
Servizi e forniture vengono date da una miriade di piccole e grandi ditte, le quali coinvolgono centinaia di migliaia di persone che al loro interno lavorano. Il terzo livello è formato invece da quell'infinità di piccoli negozi e artigiani che dai precedenti livelli suddetti traggono una parte del loro fatturato. Si parte dal macellaio per arrivare al muratore attraversando quasi tutti i comparti dell'economia reale. Potremo inserire anche un quarto anello e forse un quinto conseguente ai minori consumi del terzo, ma già i primi tre sono sufficienti a spiegare le cifre suddette.
Mi rendo conto che qui vi sto raccontando un qualcosa di veramente banale, che tutti conoscono e comprendono senza bisogno di studi specializzati, come quelli che i grandi guru dell'economia hanno compiuto e che per tale materia hanno avuto responsabilità politica: Monti, Saccomanni, Visco, Tremonti, Padoa Schioppa (oggi defunto), tutti ritenuti luminari dell'economia, che però non parrebbero essere d'accordo con i miei anelli. Non a parole, con le quali è facile distribuire solidarietà,