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“Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m'abbandona”.
Simile pensiero può essere espresso dal pubblico -proveniente da diverse parti della Sardegna, della penisola e addirittura del mondo- che lunedì 5 agosto ha potuto immergersi in una suggestiva esperienza.
La cornice è quella del Nuraghe Albucciu di Arzachena, con lo splendido bosco alle spalle e un tetto di “alte stelle” (…assieme a l'Amor che le move!).
Il protagonista è Michele Placido, indiscusso maestro del cinema e teatro italiano, che recita -anzi, interpreta, come se li vivesse- frammenti poetici sull'amore, nelle sue disparate declinazioni. S'intreccia su tale trama l'ordito delle melodie tradizionali napoletane, eseguite da Gianluigi Esposito (voce) e Antonio Saturno (chitarra), che con le loro interpretazioni quasi riescono a farci sentire l'odore del buon caffè napoletano, gustato su una bella terrazza sul lungomare -ovviamente vista Vesuvio- circondati dalle atmosfere di una delle più vivaci, poetiche e belle città al mondo.
L'evento è parte del Festival musicale Bernardo De Muro, organizzato dall'omonima accademia, intitolata al leggendario tenore tempiese, faro culturale dedicato alla celebrazione e alla diffusione delle arti performative e della musica.
La serata inizia con un apprezzamento di Placido sulla bellezza dei tesori culturali della Sardegna quali tombe dei giganti e nuraghi. Proprio al cospetto di Nuraghe Albucciu, il maestro prova a riflettere e riferire il valore che simili luoghi ricoprivano presso i nostri antenati. Segue un omaggio musicale a Maria Carta, con le note di “No potho reposare”.
“Tutta la notte ho dormito con te, vicino al mare, nell'isola. Eri selvaggia e dolce tra il piacere e il sonno, tra il fuoco e l'acqua”. La prima declinazione dell'amore scelta da Placido è “La notte nell'isola”, di Pablo Neruda.
Ed effettivamente, mastro Michele si dice innamorato della nostra isola, dove dice di tornare, in settembre, con tutti i suoi figli. Accompagna la bellissima “Era di Maggio”, di Salvatore di Giacomo (su musica di Pasquale Costa).
Dall'introspezione di Neruda si passa all'umorismo romano di Trilussa, con “L'uccelletto”, seguito dall'esecuzione di Carmela (scritta da Salvatore Palomba e portata al successo da Sergio Bruni), spartiacque generazionale nella canzone napoletana nonché metafora della stessa Napoli (“rosa, preda e stella”). Quindi, alle “Golose” di Gozzano, accompagnate da una allegra “Tazza 'e café” (scritta da Fassone-Capaldo e resa celebre -tra gli altri- da Roberto Murolo e Claudio Villa).
La prossima declinazione è affidata a “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” , del premio Nobel Montale, particolarmente cara a Placido poiché spesso sua madre chiedeva di recitargliela al telefono, per dedicarla e ricordare il defunto padre. Le note si contorno, stavolta, sono quelle di “Reginella” (di Libero Bovio e Gaetano Lama).
Tra un’interpretazione e l’altra, Michele Placido racconta aneddoti e curiosità, come il suo passato da poliziotto, l’esperienza all’accademia d'arte drammatica o l’incontro -fortuito e fortunato- coi due musicisti: un meteo da lupi interrompe la corrente e purtroppo anche lo spettacolo di Placido. un due di novembre, ad Angri (in provincia di Salerno). Vengono a prenderlo per la cena due ragazzi, che erano proprio Gianluigi Esposito ed Antonio Saturno, e si va presso la trattoria di famiglia di uno di loro. L’attore rimane stupito dall’atmosfera della trattoria, in particolare dagli strumenti musicali appesi e dall’apprendere che Esposito era proprio l’ultimo allievo del grande Sergio Bruni.
Dulcis in fundo, i due più bei quadri della serata, intrisi di pathos: una vibrante “Pioggia nel pineto” di D'Annunzio (contornata da “I’ te vurria vasà” di Russo-Di Capua-Mazzucchi) e una drammatica “Paolo e Francesca” (chiusa dalla “Tammuriata nera” di E. A. Mario ed Edoardo Nicolardi).
Il magistrale Michele Placido si conferma ancora una volta versatile: legge, recita, canta e addirittura balla, rivelando apprezzamento per l’educazione culturale e teatrale e pubblico sardo.
Il gran finale è affidato al “Silenzio delle città” di Edgar Lee Masters e al “Sordato ‘nnamurato” di Aniello Califano: Masters dice di aver conosciuto il silenzio delle stelle e del mare, della città quando si placa, di un uomo e di una vergine, dei boschi e il silenzio con cui soltanto la musica trova linguaggio.
E poi, riflessione attuale ed amara, c’è il silenzio dei giovani che muoiono nelle tante guerre di oggi. Un silenzio che avrà una spiegazione solo quando li avremo raggiunti.