Parla Ali Dehere, il portavoce del gruppo terroristico islamico somalo che ha tenuto prigioniera per un anno e mezzo Silvia Romano. “Parte del riscatto pagato per la sua liberazione - spiega - servirà a comprare armi per la jihad. Silvia Romano rappresentava per noi una preziosa merce di scambio”.

“Abbiamo fatto di tutto per non farla soffrire – dice a la Repubblica Dehere – sia perché è una donna e noi le trattiamo con rispetto. Ma anche perché Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra. I primi li passiamo per le armi, esattamente come fa l’esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo. Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell’esercito somalo”.

Poi il portavoce di Al Shabaab è tornato sul riscatto: “I soldi in parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per combattere la jihad. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l’ordine e fanno rispettare le leggi del Corano”.

Sulla conversione della cooperante italiana Dehere dice: “Ha sicuramente visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva in precedenza. Da quanto mi risulta Silvia Romano ha scelto l’Islam perché ha capito il valore della nostra religione dopo aver letto il Corano e pregato”.