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“L'arresto è una brusca scampanellata nel cuore della notte, l'abbaiare dei cani, la porta che si scardina, l'irruzione di stivali sporchi degli agenti, i quali spadroneggiano nel vostro appartamento sventrando, sfondando e strappando la vostra privata esistenza. Con loro il testimone, reclutato d'autorità e strappato anche lui dal suo letto, impaurito e mortificato. La sua presenza è richiesta dal regolamento: dovrà controfirmare il verbale all'alba”.
La frase è un piccolo sunto tratto dal racconto di Aleksandr Solzenicyn, il quale per primo ha avuto il coraggio di narrare, dopo averla subita, la drammatica verità sull'esperienza di milioni di persone in quello che lui definisce l'Arcipelago Gulag. Campi di sterminio collocati dal Circolo Polare Artico alle steppe del Caspio, dalla Moldavia all'estremo oriente. Territori inospitali nei quali confluirono tra il 1918 ed il 1956 decine di milioni di sventurati senza colpe alcune, se non quella di essere vittime sacrificali necessarie, secondo le menti malate di Lenin prima e di Stalin dopo, per istituire un clima di terrore e consolidare in tal modo il loro potere.
Le famigerate “purghe” di Lenin volevano ripulire la Russia da “insetti nocivi”: tutti i proprietari di case, gli insegnanti, chi cantava nel coro della chiesa, i sacerdoti e le monache, ma anche chi osava ascoltare musica. Senza ragioni precise inoltre, venivano arrestati e fucilati coloro che avevano lavorato nella Svezia capitalista, oppure quelli colti con le mani nel sacco perché avevano ascoltato la radio o detenevano pezzi di essa.
Oggi come allora il sultano turco non ha bisogno di prove per internare i suoi avversari politici, i quali sotto la dittatura sovietica erano deportati dopo aver subito inusitate torture per le quali, dice Solzenicyn “qualsiasi ingegnosità era ammessa”. Dalla cella arroventata sino a far uscire il sangue dai pori del corpo, alla spina dorsale spezzata o un occhio cavato. Ma oltre questi metodi medievali i giudici istruttori bolscevichi non tralasciavano neppure quelli più moderni come l'insonnia o il rinchiudere il detenuto nudo in un box talmente stretto da costringerlo a stare sempre in piedi senza poter dormire, ne muoversi, ne mangiare o bere per giorni. Solzenicyn racconta inoltre della signora Aleksandra O-va costretta ad inginocchiarsi davanti al giudice, il quale non trovò niente di meglio che orinarle in faccia, mentre tra le centinaia di testimonianze che supportano l'opera dell'ex premio Nobel in tanti riportano del box delle cimici. Un armadio d'assi, nel quale il detenuto era rinchiuso insieme a centinaia di cimici affamate che per ore bevevano impunemente il sangue del malcapitato.
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