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Refugee men and fence. Refugee concept
“Pensavo sarebbe stato semplice arrivare in Libia e poi in Europa”. È l’inizio del racconto di un giovane eritreo di 21 anni, uno dei 73 sopravvissuti a bordo della Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di @medicisenzafrontiere, prima ad essere impegnata in un'operazione di search and rescue nel Mediterraneo ad essere sbarcata in un porto italiano dopo il varo da parte del governo del nuovo decreto immigrazione, che contiene norme più stringenti sulla condotta dei soccorritori umanitari.
Sono parole piene di terrore quelle raccontate a Tpi, che esprimono tutta la paura e le umiliazioni che un ragazzo ha subito negli ultimi dolorosi giorni.
“In Libia gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché, se ci vedono, ci rapiscono per chiedere il riscatto. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire – racconta il giovane - Sono stato rinchiuso in una piccola stanza sovraffollata, con una finestra piccola. La mattina ci davano un pezzo di pane”.
“Dentro la stanza c'era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all'altro per terra – prosegue - Eravamo 70/100 persone ma non c'era un limite di persone, i trafficanti continuavano a portare gente”.
Il giovane ha poi detto di aver finalmente assaporato una sensazione di speranza: “Un giorno siamo riusciti a fuggire. Fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia. ho subito torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto – racconta - Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi”.
E così ha inizio il viaggio della speranza, ma l’orrore non era terminato: “Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto. Ci facevano mangiare pasta mischiata ai sonniferi e al mattino ti trovavi un morto accanto mentre quello dietro di te era stato torturato – dice il giovane - In bagno trovavi chi si puliva le ferite mentre bevevi acqua amara vicino a lui. Un mio amico aveva sognato ad occhi aperti di andare in Europa. Al mattino l'ho trovato morto e ho coperto il suo corpo”.
“Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture”. Parole forti che descrivono una situazione inimmaginabile e che fanno comprendere cosa significhi davvero la parola “disperazione”.
Se in Occidente un ragazzo di 21 anni ha il diritto di studiare, di lavorare, di vivere la propria vita come meglio crede, a pochissimi chilometri dalla nostra Italia, i giovani hanno perso le speranze già da un po’ e molti, purtroppo, non hanno neanche la possibilità di assaporarla per poco tempo. Situazioni terribili e tragedie, figlie di troppi errori del passato e del presente, che sembrano sempre più difficili da sradicare.