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La stampa durante i conflitti di guerra può svolgere un ruolo molto importante: in positivo informando, aiutando a creare conoscenza e sostegno pubblico e ad aumentare il morale, ma anche in negativo, diventando propaganda, con l’intento di influenzare l’opinione pubblica, plasmando sistematicamente percezioni e manipolando conoscenze, finanche arrivando alla censura, che con un certo grado di occultamento è in grado di veicolare e alterare le notizie che rischiano di restare così lontane dalla verità.
Ogni tempo però ha le sue peculiarità in termini di comunicazione in generale, non solo giornalistica, e del suo ruolo. E se durante la seconda guerra mondiale il cinema di propaganda, negli anni ’30 e ’40, ha servito da diffusore per gli ideali nazifascisti e le politiche dittatoriali, oggi, dopo l'inizio dell'operazione militare speciale russa in Ucraina e dopo gli attacchi delle brigate al-Qassam, braccio armato del partito islamista palestinese Hamas, contro Israele e la risposta di quest'ultimo accusato ora di genocidio, i social media si sono rivelati strumenti potenti e al tempo stesso sfuggenti, perché se da un lato hanno permesso una diffusione più rapida ed efficiente dei fatti, dall’altro hanno aperto la via a nuove forme di manipolazione dell’opinione pubblica, mostrando la loro capacità di profilare una vera e propria rivoluzione comunicativa strategica.
Una questione e un dilemma che ha visto coinvolto in prima persona Matteo Meloni, giornalista specializzato in ambito geopolitico, già addetto stampa al Ministero degli Esteri per una vice ministra.
Matteo si è laureato a Cagliari alla magistrale in Relazioni Internazionali, master alla IULM in Comunicazione per le Relazioni Internazionali, ha svolto diverse esperienze all'estero tra Stati Uniti, Turchia, Iran, Giordania e altri, ha lavorato alla rappresentanza italiana presso le Nazioni Unite a New York nel corso della 70° sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2015 e ha scritto per diverse riviste.
"Negli ultimi 5 anni ho collaborato con una rivista (ometteremo in questa sede il nome della testata, ndr ) in ambito geopolitico, occupandomi della rubrica 'notizia del giorno'; scrivevo dai 2 ai 4 articoli alla settimana. Per il giornale, dei recenti eventi legati alla questione israelo-palestinese non ho scritto tantissimo, puntando maggiormente su altre tematiche meno in vista. Su base quotidiana, quando capitava il mio giorno di realizzazione degli approfondimenti geopolitici, proponevo 3 idee, 3 tematiche per l'indomani, che potevano riguardare ogni parte del mondo.
Negli anni ho potuto approfondire, sia sul campo sia attraverso la ricerca, le questioni di quell'area che, dalle nostre parti, definiremmo mediorientali, occupandomi però anche di Nato, politiche europee, politiche statunitensi e più in generale di organizzazioni internazionali, arrivando a toccare domande relative a Paesi come Cina, Giappone, India, Australia, Nuova Zelanda, al teatro Indo-Pacifico, cioè zone geografiche che hanno un ruolo importantissimo nello scacchiere internazionale odierno.
Poche settimane fa sono stato allontanato dalla rivista per le mie posizioni personali, critiche, nei confronti delle politiche israeliane e rispetto a quanto sta avvenendo su Gaza. Posizioni espresse sui miei canali sociali, in quanto privato cittadino prima ancora che giornalista. La 'sospensione', che era inizialmente di tre settimane — ma è evidente ormai sia di natura più duratura —, è arrivata a seguito di pressioni di carattere istituzionale a livello ministeriale."
"Il mio caso non è assolutamente sporadico né l'unico. Da tempo va avanti un grande e importante tentativo di censura nei confronti dei giornalisti e dei ricercatori universitari che cercano liberamente di esprimere la loro opinione o addirittura di realizzare il loro stesso lavoro. Recente il caso del giornalista di Repubblica che si è dimesso in contrasto con l'impostazione assunta dal giornale diretto da Molinari, giornale nel quale quotidianamente si poteva vedere le pubblicità dello Stato di Israele che invitava i cittadini italiani ad andare in vacanza a Tel Aviv, città quasi a ridosso di Gaza, dove invece vivono, in quel grande campo di concentrazione — che non definirei mai una prigione a cielo aperto, dato che in prigione ci vanno i responsabili di qualche delitto — persone che invece non hanno commesso nulla e la cui unica colpa, se così si può chiamare, è di essere palestinese. Anche Piergiorgio Odifreddi alcuni anni fa aveva visto cancellata una rubrica, sempre su Repubblica, perché aveva ricordato quanto gravi fossero le azioni del Governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Sono tanti i personaggi che sono stati limitati nelle loro espressioni in questi anni, sia a livello italiano che a livello internazionale."
"Innanzitutto, privato della possibilità di mia libera espressione, alla quale si è aggiunta la paura che le autorità istituzionali, ministeriali, possano in qualche modo influire nella vita di una persona qualunque, come posso essere io. Perché è vero, sono un giornalista, ma in primis sono un libero cittadino, e non è possibile che le espressioni libere di un cittadino possano essere motivo di preoccupazione a questi livelli. È accettabile che un giornalista possa subire questo tipo di censura nel 2024 in Italia, Paese che dovrebbe rispettare le più basilari norme di diritto della persona, dunque messo in disparte per ciò che ho espresso nel rispetto della legge? Me lo chiedo facendo questa domanda a coloro i quali dovrebbero essere gli interlocutori principali, gli organi legati alla mia professione, quindi l'Ordine dei Giornalisti e Assostampa."
"Io non ho intenzione di tacere perché la questione non è personale, la questione è di carattere etico, morale e deontologico. È una questione che riguarda tutti noi: sfido io, chi potrebbe accettare che per un'espressione pubblicata sui social, tra l'altro piuttosto basata su fatti, concreti, in avvenimento, si possano poi richiedere delle censure per chicchessia?
Tra l'altro ho lavorato per una realtà editoriale senza social media policy, non c'erano dei prerequisiti specifici che dovevo rispettare, se non quelli di buon senso nel rispetto di tutto e di tutti, rispetto che io ho sempre mantenuto. Ho semplicemente criticato il potere; ho criticato il Governo israeliano, come tante altre volte ho criticato il Governo italiano, le potenze occidentali, gli Stati Uniti. È nella natura di un giornalista poter avanzare delle critiche, talvolta anche forti, purché non scadano nella violenza, nella volgarità, nelle parolacce, negli epiteti."
"Per spiegarlo dobbiamo tornare indietro di qualche secolo."
"La presenza ebraica in Palestina è sempre esistita. Nella regione, a dispetto di quanto si possa pensare, hanno convissuto persone di diversa fede religiosa — spiega Matteo —, colonizzate di volta in volta da potenze straniere.
Nel frattempo, tra l'800 e il ‘900, cresce il movimento sionista (da 'Sion', la collina di Gerusalemme dove sorge la parte più antica della città che simboleggia la Terra promessa, ndr), con padre fondatore il giornalista di origine ungherese Theodor Herzl e nella cui carta costitutiva, redatta a Basilea nell'agosto 1897, emerge l'essenza del manifesto: 'Lo scopo è di creare in Palestina una sede nazionale per il popolo ebraico garantita dal diritto pubblico'.
Il sionismo inizialmente va incontro a diverse resistenze. Non tutti i fedeli dell’ebraismo guardavano con occhio positivo il movimento sionista, sostenevano che dopo tutta la fatica impiegata per potersi integrare nelle società del Vecchio continente, dopo tutti gli anni vissuti a lottare per la propria identità, l'integrazione ormai stava avvenendo, stava procedendo, non aveva senso far nascere uno Stato su base religiosa.
Il processo di integrazione è avvenuto faticosamente, con alcuni episodi drammatici come il caso Dreyfus, personaggio francese imputato di aver tradito la propria patria con un'accusa infondata, che gli ha causato vicissitudini gravissime, per poi scoprire che non aveva nessun tipo di responsabilità. Un caso di antisemitismo a tutti gli effetti. L'antisemitismo (che sta a indicare il pregiudizio o il sentimento di odio nei confronti del popolo ebraico, ndr), questione prettamente europea, esiste ed è una questione delicatissima. Il razzismo verso gli ebrei è sempre esistito, dalle vergognose accuse verso il mondo ebraico di essere responsabile della morte di Gesù, passando per tanti altri aspetti che accusano il mondo ebraico di essere vicino ai poteri forti. Questo è diventato vero e proprio odio nei confronti degli ebrei.
A causa delle persecuzioni operate dalla Russia zarista con i cosiddetti 'progrom', prende il via una serie di ondate migratorie dall'Europa verso la Palestina, all'epoca ancora sotto il Governo ottomano.
I turchi governano la Palestina fino 1917, garantendo da sempre una certa autonomia alle etnie e tollerando la crescita della popolazione ebraica durante le persecuzioni, che arrivò a contare fino a 85.000 coloni. Le tensioni più gravi tra la popolazione araba e i nuovi abitanti, di religione ebraica ed europei d’origine, nacquero soprattutto dopo la Grande Guerra a causa dell’ambigua politica britannica, che si dichiarava favorevole alla creazione di uno Stato arabo per il popolo palestinese, ma di fatto mostrò disinteresse nei confronti del flusso migratorio in Palestina, accettando infine le ambizioni sioniste con la ‘Dichiarazione Balfour’ con cui affermava di guardare con favore alla creazione di una "dimora nazionale per il popolo ebraico", nel rispetto dei diritti civili e religiosi delle altre minoranze religiose residenti. Sotto il mandato britannico la situazione nella zona palestinese andò facendosi sempre più complicata.
L'inizio del conflitto odierno risale al 1947, in seguito allo sterminio di gran parte degli ebrei europei durante l'Olocausto, causa di un'ulteriore intensificazione dell'ondata migratoria ebraica in Palestina. Le Nazioni Unite votarono per la spartizione del mandato della Palestina in due Stati: uno ebraico (Israele) e uno palestinese (che non ha visto mai la luce ufficialmente). La lotta tra gruppi armati si intensificò fino alla dichiarazione di indipendenza di Israele nel maggio 1948 e la ‘Nakba’ che, come ricorda lo storico israeliano Ilan Pappé, è stata una pulizia etnica, frutto dell’azione sionista contro i palestinesi. Negli ultimi anni le tensioni e gli scontri tra Hamas (partito islamista finanziato alla sua nascita da Israele) e lo Stato ebraico sono andate avanti con il lancio di diverse operazioni da parte di Israele a Gaza e l'espansione delle colonie nei territori palestinesi in Cisgiordania."
"C'è uno stravolgimento nelle relazioni internazionali, con una modifica dello status quo avvenuto sicuramente a cavallo della pandemia da Covid e proseguita con l'invasione della Russia in Ucraina. Fino a quel giorno il rischio di confronto Nato-Russia non si era mai verificato a questi livelli, così come il rischio di un confronto Occidente-Cina non si era mai verificato a questi livelli. Dal giorno dopo l'operazione russa, abbiamo visto un posizionamento importante di tanti attori: quelli legati necessariamente alla Nato e agli Stati Uniti, come il Giappone che per la prima volta si è esposto nei confronti della Russia (ricordiamo che i due non hanno un trattato di pace dalla fine della seconda guerra mondiale), o altri come l’India, che fa affari con la Russia acquistando materiale bellico e petrolio a basso costo, mantenendo allo stesso tempo relazioni importantissime con l'Occidente e in particolare con gli Stati Uniti, senza incorrere in sanzioni, nell'ottica del contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico."
"In realtà sono tematiche unite dallo stesso 'fil rouge': all'indomani della seconda guerra mondiale infatti nasce un nuovo mondo, un mondo che vede ancora oggi — nonostante siano passati davvero tanti anni — una rendita di posizione da parte di USA, Russia, Regno Unito, Francia e Cina, che ancora hanno un diritto di veto all'interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organo decisionale importante dell'ONU, l'unico che potrebbe veramente valutare un intervento a livello internazionale e che, in realtà, rimane ingessato. Ogni Paese con diritto di veto lo esercita secondo i propri interessi: difficile passi una risoluzione contro Israele nonostante i bombardamenti che stanno avvenendo a Gaza, e gli oltre 27 mila morti, dato che ci sarà sempre il veto statunitense. Per meglio comprenderci, sarebbe stato difficile ipotizzare, ad esempio, una missione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità in Cina all'indomani del Covid perché Pechino avrebbe posto il veto per una missione in loco, che dunque avrebbe potuto meglio accertare le origini della pandemia. Più facile è stata la nascita di una missione dell'OMS appoggiata dal Consiglio di Sicurezza nell'Africa Occidentale quando c'era stato lo sviluppo di ebola, c’era unità di intenti tra i 5 con diritto di veto.
Il mondo è bloccato, ma non solo: il mondo che è nato a seguito del secondo conflitto mondiale, che ha votato all'epoca per la nascita di uno Stato di Israele accanto allo Stato di Palestina, è un mondo che non c'è più. Di quelle Nazioni Unite facevano parte pochissimi Paesi, oggi i membri sono 193, nazionalità che al tempo erano ancora sotto il giogo coloniale delle forze occidentali, Stati che in larga misura appoggiano la nascita dello Stato di Palestina.
Dirò di più, una cosa che all'Occidente fa venire l'orticaria: la maggior parte di questi Stati, che poi votano le risoluzioni in favore di un cessate il fuoco, della fine dell'occupazione dei territori palestinesi, che condannano l'apartheid israeliano nei confronti degli arabi israeliani in Israele, sono Stati che hanno delle relazioni politiche con Hamas; la stessa Europa fino ad alcuni anni fa riteneva Hamas un interlocutore importante. Come anticipato, Hamas nasce finanziata da Israele, perché il Governo israeliano voleva sovvertire la forza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, di Fatah e dell’allora leader palestinese Arafat. Un quadro all’insegna della laicità, senza connotati religiosi, con una forza importante e unitaria all'interno della Palestina. Con la nascita di Hamas questa voce unitaria in qualche modo si è divisa negli obiettivi, dando forza alla stessa Israele e a un partito religioso."
"Le relazioni internazionali in atto dall'indomani della seconda guerra mondiale si basano sulla più grave delle ingiustizie, quella di non aver creato uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele. Oggi Israele, che nasce come Stato ebraico, confessionale, è l'ultima realtà realmente coloniale: per coloniale intendo l'idea del colonialismo europeo del passato, che pratica ancora un determinato tipo di atteggiamento, occupando anche con la forza territori non suoi, cercando di cancellare storia e cultura di popoli esistenti. Una delle realtà più razziste anche e soprattutto perché si basa su un'idea etnico religiosa, quella di essere ebrei ma specialmente sionisti.
Risolto il problema israelo-palestinese si risolverebbero tante altre tensioni esistenti a livello geopolitico mondiale, l'esatta cartina tornasole dello stato delle relazioni internazionali. Come dice Ilan Pappé (studioso ebreo e anti-sionista, rappresentante della cosiddetta 'Nuova storiografia' israeliana, ndr) oggi la soluzione a due Stati è ampiamente superata e io condivido pienamente questa posizione, che da tempo si sta discutendo. Perché superata? Perché impraticabile: non fa altro che perpetrare la violenza nei confronti dei palestinesi e radicalizzare ancora di più le posizioni israeliane sia fisiche, sia ideologiche, sia identitarie. In secondo luogo, essendo Israele potenza occupante di territori palestinesi che dovrebbero essere il futuro Stato di Palestina, sarebbe impossibile mandare via facilmente i coloni israeliani, che in quei territori uccidono i palestinesi supportati dall’esercito, restando impuniti.
La soluzione è perciò uno Stato unico, nel quale tutti abbiano pari libertà e pari dignità e pari diritti, sia palestinesi sia israeliani. Questa è l'unica soluzione realmente attuabile, tutte le altre non fanno che dar voce ancora di più alle posizioni israeliane e alla situazione di sudditanza del popolo palestinese, che non si può autodeterminare né politicamente, né a livello geografico, né statuale."
"Domanda difficile. Rispondo dicendo che laddove c'è un obiettivo di cancellazione di un popolo, di un'etnia, di un gruppo di persone ben identificato, c'è un genocidio, c'è un olocausto. Hitler e Mussolini hanno avallato una politica ben chiara, quella della eliminazione totale degli ebrei e, insieme a loro, dei Rom e dei Sinti, degli omosessuali, dei disabili e dei dissidenti politici.
Nel caso delle pratiche israeliane nei confronti dei palestinesi ciò che si sta verificando è sempre stato molto chiaro, sia nei documenti ufficiali israeliani, sia nella pratica e quindi nella consuetudine delle modalità dell'esercito israeliano, sostenuto dalle politiche governative nei confronti dei palestinesi: la loro totale eliminazione, possibilmente la loro cacciata ed eliminazione.
Netanyahu, è da notare, non parla mai di palestinesi, parla sempre di arabi, o al massimo di cittadini di Gaza."
"È fondamentale celebrare i milioni di innocenti uccisi dalla violenza nazifascista. Il ricordo del dramma, che ci ha visti pienamente coinvolti e responsabili, è la base culturale sulla quale sono state edificate le nazioni contemporanee, la nostra stessa Costituzione antifascista; tuttavia, da diversi anni a questa parte leggo un'estrema ipocrisia nelle celebrazioni dell’olocausto: tutti i fatti gravi che sono avvenuti nel corso della storia dovrebbero essere in ricordo del 'mai più', ma il mai più non si sta verificando e probabilmente non si è mai verificato, né in passato né tanto meno adesso."
"Liliana Segre recentemente ha detto: “ Io non penso proprio di dovermi discolpare, in quanto ebrea, di quello che fa lo Stato d'Israele ”. Condivido pienamente le parole della Senatrice. Tutto ciò è contrario alla religione ebraica. Aggiungerei che è antisemita accusare gli ebrei per quanto compie il Governo israeliano. I milioni di attivisti ebrei antisionisti che si manifestano in tutto il mondo ne sono la principale dimostrazione. Mi sconvolge di più che siano esseri umani a perpetrare della violenza nei confronti di persone indifese, accerchiate, impossibilitate a scappare. L'aspetto religioso viene quasi in secondo piano, sfruttato in maniera del tutto errato dall'esecutivo Netanyahu. Essere ebrei non significa essere sionisti, così come essere musulmani non significa appoggiare il terrorismo di matrice islamica."