A Giave ormai, il treno non si ferma più. Il sindaco grida tutta la sua rabbia contro le istituzioni regionali, che neppure rispondono. I piccoli ospedali, come quelli di Sorgono, Muravera e Lanusei, potrebbero essere depotenziati, in barba alle proteste che si susseguono anche in questi giorni. Poi ci sono i tribunali e tutti gli uffici del giudice di pace chiusi oramai da tempo.  A questi si deve aggiungere l'eliminazione di decine di uffici postali, quelli degli stessi piccoli paesi che vedono chiudere le scuole per mancanza di alunni.

Un lento e inesorabile processo verso il declino della civiltà, costruita con tanta fatica nei decenni successivi all'ultimo conflitto mondiale. Quelli della giovinezza di noi quarantenni, ma anche dei cinquantenni, sessantenni e settantenni.  Quei decenni che hanno, più di ogni altro periodo storico, determinato un livellamento del benessere della popolazione a favore dei ceti più deboli.

Non eravamo una società perfetta. Ci assillavano l'inflazione alta, gli anni di piombo con il terrorismo rosso contrapposto a quello nero, la mafia, le tangenti ai partiti. Però stavamo bene.

I nostri genitori in quegli anni non erano disoccupati. Era sufficiente farne richiesta, per essere assunti nel  posto fisso auspicato dal simpatico Zalone, mentre alle imprese il lavoro non mancava mai.

Ma sopratutto avevamo la garanzia che lo Stato fosse presente in ogni piccolo paese o villaggio dell'intero stivale: dalle Alpi a Lampedusa, passando per Ustica e Pabillonis. Ogni territorio aveva la certezza di avere i servizi che hanno reso moderno e democratico questo paese: l'ospedale, la scuola, la caserma dei carabinieri, l'ufficio postale, l'ufficio di collocamento, la “corriera”, il tribunale, o almeno un “Pretore” a cui chiedere giustizia. Tutti insieme rappresentavano l'emblema di uno Stato che non ti faceva mai sentire solo, in balia di te stesso. 

Oggi le concezioni “bocconiane” dicono tutt'altro. Parlano di razionalizzazione, quasi che i servizi suddetti fossero superflui. Oppure parlano tanto di “centralizzazione”, come se avessimo cittadini di serie A e di serie B, se non pure di C. I primi sono quelli che vivono nelle grandi città, mentre i secondi ed i terzi sono quei disgraziati che vivono nei piccoli paesi o frazioni di essi. Queste ultime due categorie di “cittadini” hanno una cittadinanza degradata e per le nuove teorie dei nostri governanti dovranno pertanto accontentarsi di avere l'ospedale solo a Cagliari e forse a Sassari.

Le unioni dei comuni vorrebbero eliminare altri servizi locali, licenziare personale e dunque ridurre le spese. Tutto viene visto come uno spreco, tutto è superfluo, niente ha più valore: la cultura, la sicurezza, ma neppure la salute della popolazione. Se in passato nell'atto di garantire i servizi, si assegnava anche lo stipendio a milioni di persone riequilibrandone le sorti, adesso ci si deve spartire tutto: dal prete alla scuola, fino al carabiniere. Se in una civiltà ormai dimenticata, le comunità montane tentavano di ammorbidire i disagi di chi vive in luoghi dove la natura è un pochino più austera, in quella attuale si auspica che nessuno viva più in montagna. Gli imperterriti rimasti si arrangeranno: non possiamo mica pensare a tutti !!! 

Del resto chi decide della nostra sorte vive a Cagliari o Sassari piuttosto che Roma o Bruxelles, dunque perché dovrebbe preoccuparsi di pagare per tenere in piedi il San Camillo di Sorgono o il San Marcellino di Muravera? Oppure perché tenere aperto l'Ospedale Marino? Chi se ne frega di quelli che arrivano dal litorale di Quartu? Possono benissimo fare ore di cammino e mettersi in coda nel pronto soccorso dell'ultimo, “centralissimo”, ospedale rimasto in città. Che importa del resto se qualcuno muore per strada? Sarà una pensione in meno da pagare.

E cosi lo stato avrà risparmiato due volte: niente pensione, niente cure gratuite. Anche in tema di sicurezza del resto, quel barlume di civiltà della nostra infanzia sarà presto dimenticato. Rivivrem