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E’ passato già un anno da quella mesta giornata per lo sport italiano che vide andar via uno dei suoi interpeti più nobili e amati dalla gente.
Pietro Mennea è andato via in silenzio. Si è alzato con discrezione, ha indossato la giacca ed è uscito, chiudendosi la porta alle spalle con delicatezza. Era questa l’idea che mi ero fatto del suo commiato, della sua partenza verso il traguardo ultimo di una carriera da corridore elegante e distinto nella pista e soprattutto nella vita.
Fu protagonista di un ventennio d’oro dello sport italiano, per intenderci, erano al top in quegli anni atleti del calibro di Novella Calligaris, Adriano Panatta e Sara Simeoni. Il suo Oro alle Olimpiadi di Mosca nel 1980 rimane ancora oggi uno dei più dolci ricordi degli sportivi azzurri, il suo record di velocità sui 200 m piani alle Universiadi del '79 resistette agli attacchi avversari per ben 17 anni.
Fino alla fine coerente con la sua immagine di campione d’altri tempi, non offrì a nessuno, tanto meno ai media, la dolorosa intimità della malattia che lo stava consumando. Lo avrebbero coccolato e celebrato in tutto il mondo, avrebbero puntato i riflettori su di lui, così come suol fare in questi casi quell’indelicata macchina d’informazione che è il giornalismo. E lui, tante volte protagonista dai tratti decisi, spesso senza volerlo, non avrebbe gradito questi coni di luce.
Per quanto mi riguarda, ebbi l’inaspettata e straordinaria fortuna di conoscerlo a Pattada pochi mesi prima della sua morte e di scambiarci alcune parole prima di un convegno in quella che, probabilmente, fu una delle ultime interviste rilasciate dalla Freccia del Sud. Era il settembre del 2012, e le parole del campione furono una testimonianza intensissima di come lo sport, quello vero, renda l’animo più alto e gli occhi più belli. Il signor Mennea rispose con un garbo e una delicatezza ammirevoli alle mie domande che in questo ricordo condivido con voi.
Cosa spinge una persona affermata e impegnata come lei ad essere presente oggi in un piccolo paese come Pattada a parlare di sport e solidarietà?
Credo che la mia vita di sportivo, ma anche quella di persona civile, sia da raccontare non perché gli altri debbano seguire il mio esempio, ma perché ho dimostrato che attraverso l’impegno, il sacrificio, il rispetto dei valori si può arrivare a qualcosa di importante nella vita. Non perseguendo le scorciatoie che ci vengono propinate dal mondo di oggi, dove pur di arrivare si è disposti a tutto. Io dico sempre, soprattutto ai giovani, che con sacrifici, lavoro, passione e dedizione si ottiene sempre qualcosa di buono.
I suoi sacrifici sono stati ripagati…
Io non ero un predestinato, non ero un talento naturale, non sapevo dove mi avrebbe portato la mia passione per la corsa, sapevo solo che mi sarei dovuto allenare tanto ed è quello che ho fatto. Mi sono allenato per vent’anni, 5-6 ore al giorno compresi Natale e Pasqua. Ho faticato tanto, ho provato delusioni e gioie ottenendo le vittorie più ambite e stabilendo un record mondiale che è rimasto imbattuto per 17 anni. Tuttavia non baratterei i record e i successi ottenuti nella mia vita quotidiana con i grandi successi ottenuti nella mia vita sportiva.
Cosa le rimane di quegli anni?
Di quegli anni mi rimangono indubbiamente tanti bei ricordi. Quello di più caro che mi rimane, però, è l’orgoglio per non aver mai ceduto a falsi miti e di avere sempre dato il massimo. Nello sport se non vinci non sei nessuno, questo è vero, ma la cosa che bisogna preservare sempre più di tutto è la propria dignità. Io ero consapevole delle mie potenzialità, una volta incotrai l'entourage di Cassius Clay in California e mi dissero che voleva conoscermi. Mi presentarono a lui come l'uomo più veloce del mondo e dopo avermi osservato esclamò sorpreso "Ma tu sei biano!", io dissi "Sì, sono bianco, ma dentro sono più nero di te"
Oggi assistiamo impotenti al degrado dei valori dell