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Cagliari si prepara a scegliere l’erede di Paolo Truzzu, l’8 e il 9 giugno, quando i cittadini saranno chiamati alle urne per esprimere la propria preferenza sul futuro amministratore del capoluogo isolano. Cinque candidati per venti liste, fra volti nuovi e vecchie conoscenze. A contendersi la guida della città saranno: Alessandra Zedda, ex presidente della Giunta regionale ed ex assessora del Lavoro; Massimo Zedda, già primo cittadino di Cagliari dal 2011 al 2019; Giuseppe Farris, avvocato e assessore al Personale nella Giunta Floris; Emanuela Corda, ex deputata pentastellata e presidente di Alternativa; Claudia Ortu, ricercatrice universitaria di linguistica inglese all’università di Cagliari e giornalista pubblicista.
Tanti nomi, ognuno con importanti esperienze pregresse, sostenuti da liste, partiti e ideali differenti fra loro. Abbiamo parlato con Claudia Ortu, quinta candidata alle amministrative cagliaritane. Alla guida della lista Cagliari Popolare – Alternativa di Classe, che unisce Potere al Popolo (di cui è coordinatrice nazionale) e Pci, ha 47 anni e porta con sé un importante bagaglio di esperienze e iniziative. Da tempo attiva nel movimento di solidarietà con il popolo palestinese e impegnata nell’opera di contrasto alle basi militari in Sardegna, è alla sua seconda candidatura in assoluto dopo quella con Unione Popolare alle elezioni politiche del 2022 nel collegio uninominale.
La sua è una “proposta alternativa”, a sostegno della classe lavoratrice, una candidatura “radicale e non di compromesso”. Ai nostri microfoni ha spiegato la sua idea di politica, motivando la scelta di candidarsi a sindaca di Cagliari.
Dall’esito delle Regionali è emerso in tutta la sua evidenza il disappunto dei cittadini cagliaritani, che hanno bocciato la giunta Truzzu. Da dove ripartire per sanare questo malcontento?
“Con il malcontento se la vedrà chi lo ha causato. Il nostro compito è di portare una prospettiva radicalmente diversa proprio da quella che è stata incarnata dalla gestione Truzzu, ma anche da quelle precedenti. In entrambi i casi, gli interessi non sono mai quelli della classe lavoratrice. Per noi si inizia esattamente da questo: una decisa inversione di rotta nella direzione di un’amministrazione che guardi alle esigenze delle classi lavoratrici, nelle quali includiamo sia le persone occupate che quelle disoccupate”.
Per lei non si tratta della prima esperienza politica, dopo la candidatura nel collegio uninominale alle elezioni politiche del 2022: come ha vissuto queste settimane di campagna elettorale?
“La mia esperienza politica prescinde da quella elettorale: la mia militanza in vari movimenti in Sardegna è di lunga data. Con Potere al Popolo ho iniziato nel 2019: esistiamo e facciamo politica nei nostri quartieri, e lo facciamo 365 giorni l’anno. È vero, stiamo nei movimenti, ma a un certo punto si crea l’esigenza di contendere il potere. Quella delle politiche è stata un’esperienza molto ‘di servizio’, nel senso che era evidente che il collegio uninominale non lo avrei mai potuto vincere. Di simile, rispetto a questa tornata elettorale, c’è il fatto che per noi le elezioni sono un momento nel quale riusciamo a prendere parola, perché il sistema delle comunicazioni di massa è obbligato a sentirci. Pertanto, possiamo dire la nostra. Inoltre, stavolta esiste una possibilità concreta di portare queste istanze in consiglio comunale. Per quanto riguarda le amministrative, mi spiace il fatto di aver dovuto affrontare la campagna da lavoratrice, nel senso che ad essa non ho potuto dedicare tempo pieno. È stato molto bello incontrare le persone, capirne le esigenze e i bisogni, persone che magari non avevamo intercettato col nostro lavoro di quartiere. Ciò ha confermato la nostra valutazione sul fatto che le periferie della città sono state abbandonate a favore del centro, che è stato tirato a lustro al solo scopo di compiacere turisti e turiste”.
Proprio nel suo programma lei preme molto sul contrasto alla monocultura turistica e il ritorno dei residenti nei quartieri storici, ma ciò non rischia di incidere in negativo sull’economia della città?
“Dipende dal lasso di tempo del quale stiamo parlando. Se si pensa a domani, magari sì; ma se si ragiona sul lungo termine non è così, perché qualunque monocultura, e quella del turismo in particolare, rappresenta un modo di gestire l’economia miope, perché espone a un rischio. Ci ricordiamo che c’è stato il Covid? Nel momento in cui si chiudono i rubinetti del turismo si rischia di rimanere senza alternative. La questione è avere un’economia diversificata, che risponda alle esigenze di chi qua vive e lavora, in modo che sia inattaccabile perché si regge sulle esigenze della popolazione residente, e non, per fare un esempio, sul capriccio di Ryanair che decide di far arrivare o non far arrivare le persone. Quella del turismo è un’economia che consuma la città e si lascia dietro solo macerie. Basti vedere le varie città che si sono consorziate nella rete delle città contro la turistificazione, a partire da Barcellona. Se non mettiamo un freno adesso non potremo più farlo”.
Anche la questione palestinese al centro del suo progetto politico: come coinvolgere Cagliari e la sua gente in questa “missione” di connessione rendendola concreta e portandola all’attenzione di una realtà come quella isolana?
“Io, praticamente da fine ottobre, porto la kefiah ogni volta che esco di casa, ogni giorno, incessantemente, compreso il Natale in famiglia e le lezioni universitarie. L’ho sempre portata come simbolo, sia per coinvolgere, sia perché soprattutto all’inizio di questa vicenda mi sentivo anche io un po’ isolata, e volevo dare alle persone che avevano il mio stesso sentimento di disgusto e tristezza per quanto sta succedendo la sensazione di non essere sole. La campagna elettorale non fa differenza: continuo a fare le stesse cose che facevo prima, vado in giro portandomi addosso questa lotta. Il coinvolgimento è presto fatto; bisogna avere la possibilità di far vedere che un’ingiustizia perpetrata contro la comunità palestinese rappresenta in realtà un affronto all’umanità nel suo complesso. La cosa che fa paura è che l’umanità rischia di abituarsi a tutto ciò, per cui ai prossimi massacri arriveremo con una soglia dell'indignazione ancora più alta. Questo, secondo me, le persone lo capiscono. Molte persone non le vediamo in piazza non perché non siano d’accordo con noi, ma perché pensano che sia inutile scendere in piazza. Io, con quella parte del nostro programma che prevede di aderire al boicottaggio di aziende e istituzioni israeliane, e di gemellarci con la città di Jenin, nella quale il genocidio sta avvenendo sottotraccia, spero di dare l’idea che, invece, insieme si possa fare qualcosa. In Sardegna, se riuscissimo a sottrarci pezzo per pezzo alle servitù militari staremmo facendo un pezzettino del nostro dovere anche nei confronti del popolo palestinese, visto che molte delle armi che vengono utilizzate contro di loro vengono sperimentate nell’Isola”.
La concorrenza per la guida del capoluogo è agguerrita: come valuta i suoi sfidanti?
“Per me la grande questione è che manca una scelta di campo. La politica in generale è poco entusiasmante se non si esplicita una scelta a favore di una o dell’altra parte del conflitto fra capitale e lavoro, a me piacerebbe avere una chiarezza su tutto ciò. Se ci fosse piaciuto quello che stava nell’offerta politica non avremmo preso la decisione di candidarci”.
La sua, in definitiva, è una proposta “alternativa”: che riscontro ha avuto dalla popolazione rispetto a questa visione fuori dagli schemi?
“Io penso che le persone abbiano un grande istinto rispetto a questa differenza, penso che venga percepito. L’importante è riuscire a comunicarla con parole che siano accessibile, levando un po’ di polvere da certi concetti. In questa maniera le persone, soprattutto quelle dei quartieri popolari, capiscono cosa vuoi trasmettere. Non hanno bisogno di grandi discorsi teorici per rendersi conto che sono state abbandonate. Per loro questa è un’esperienza di vita alla quale finora non hanno dato un nome, ma che percepiscono. La sensazione, vedendo i loro sguardi, è come se qualcosa cadesse improvvisamente nel punto giusto: è quello che sento durante il confronto. Il nostro obiettivo è portare i nostri e le nostre a votare, perché la maggior parte non lo fa”.
In poche parole: perché dare fiducia a Claudia Ortu?
“Perché le mie idee non cambieranno. Quella che può essere un’accusa, “sei ideologica”, per me in realtà è una garanzia, nel senso che noi facciamo politica per portare avanti un’idea, che rimane quella. Qualunque cosa noi faremo sarà basata su quella idea. Penso che sia giusto dare fiducia a Cagliari Popolare e a me perché quello che vedete in campagna elettorale è esattamente lo stesso di quello che vedreste dopo”.