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«Al dio degli inglesi non credere mai», cantava Fabrizio de André nella sua Coda di lupo. Amarcord. Era il maggio del 1978 e nell’estate di quell’anno, ai mondiali d’Argentina, Enzo Bearzot trascinava l’Italia alla conquista di un quarto posto che ci stava stretto stretto. Era solo il preludio di quello che quattro anni più tardi in Spagna sarebbe stato il più iconico dei trionfi azzurri.
Oggi il dio degli inglesi si chiama Harry Kane, gigante biondo, capitano dei Tre Leoni che stasera, nella reggia calcistica di Wembley, attenderanno la finalissima dell'Europeo contro l’Italia con la fame di chi non vince nulla dal ’66 e la superbia di chi gioca in casa come in occasione di quel trionfo di 55 anni fa (era la Coppa Rimet di Bobby Charlton). Lo spirito di rivalsa di chi ha inventato il gioco del pallone e vuole riportare a casa il prestigio della vittoria («it’s coming home»). La consapevolezza altezzosa di chi può contare sulla rosa più costosa del torneo: 1,32 miliardi di euro di valore complessivo a fronte della valutazione da 764 milioni per i nostri.
Quella che dovrà vedersela con i britannici al cospetto di Sua Altezza Reale William di Cambridge e di Sua Illustrissima Calcevolezza David Beckham, ospiti fissi in tribuna d’onore dello stadio più bello d’Europa da circa un mese, sarà tuttavia una Nazionale compatta, costruita da Roberto Mancini in tempi record e sulle ceneri della storica mancata qualificazione ai mondiali del 2018. Un’Italia operaia ma imprevedibilmente frizzante. Un gruppo che ha trovato nell’atalantino Pessina, nel sassuolese Locatelli e nel finalmente consacrato Spinazzola le sue rivelazioni. Un’Italia di provincia, che predica il credo della cazzimma anche grazie alle origini partenopee di alcuni dei suoi interpreti più aristocratici: Donnarumma, Insigne, Immobile. Senza dimenticare i “napoletanizzati” Jorginho, Di Lorenzo e Meret. Per il vecchio leone Chiellini potrebbe essere l’ultimo ruggito azzurro. A lui e ai colleghi di reparto l’arduo compito di arrestare le velenose incursioni di Sterling & Co. in uno spettacolo di football come non se ne vedevano da tempo.
Sessantamila spettatori a Londra. Quasi tutti, prima del fischio di inizio, intoneranno l’inno più antico e più cantato del pianeta: God save the Queen. Per noi fratelli d’Italia, riuniti in piazza come sembrava impossibile fino a poche settimane fa, giusto il tempo di un brivido prima di provare a scompigliare, con un pizzico di fantasia e temeraria sfrontatezza, il proverbiale aplomb di lor signori d’Oltremanica.