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MAGGIO- La finale di Coppa Italia e gli scontri di Roma. La guerriglia urbana, gli spari all’Olimpico e Genny ‘a Carogna. Il ferimento di Ciro. Gli ultras violenti, le società accondiscendenti, i presidenti complici e la polizia impotente davanti alla folle stupidità di energumeni repressi che trasformano la festa dello sport nel circo della violenza.
GIUGNO- Giubbotti refrigeranti, casette termiche, criosaune e sensori aerospaziali a Coverciano. Parole, parole, parole e decine di milioni di euro, decine di milioni di speranze tradite da una Nazionale boriosa e senza nerbo. La morte di Ciro. La Coppa del Mondo, il Cristo di Rio e i sogni di notti magiche. Marchisio e Balotelli e poi niente, ma niente davvero. Nemmeno i fischi a Fiumicino.
L’anno zero del calcio italiano inizia a Natal, il 19 giugno alle 14:45 ora brasiliana. Al termine di Italia-Uruguay, Cesare Prandelli e Giancarlo Abete si dimettono e si dimette l’ottimismo dei tifosi italiani gonfi e tronfi, che dopo Euro 2012 avevano intravisto un futuro roseo per una nazionale azzurra che sembrava pronta e invece era impreparata, sembrava fresca e invece era stanca.
“Rinnoviamo” si disse, chiuso il capitolo Brasile. “Ripartiamo dai giovani”.
AGOSTO- Carlo Tavecchio è il nuovo presidente della FIGC. 70 anni, da trenta appresso al carrozzone-calcio il che non significa necessariamente esperienza ma, troppe volte, vecchiezza di idee, radici lontane dalle moderne chiavi di lettura di questo sport e scarsa capacità di orientamento nei meandri dei nuovi fenomeni sociali e antropologici generati dal calcio business.
A incoronarlo numero 1 del football italiano sono dirigenti vetusti che non vogliono cambiare perché hanno paura di perdere il passo. I riformatori, da tempo, avevano fatto cerchio attorno al nome di Demetrio Albertini, grande talento espresso dal calcio nostrano a cavallo tra gli anni ’90 e 2000 e dunque conoscitore delle dinamiche di campo e di spogliatoio in primis. Campione di Milan, Barcellona e Nazionale, Albertini, dopo il ritiro, si è fatto valere anche come dirigente, salendo presto ai piani alti della Federazione. Competente, equilibrato e stimato nell’ambiente era lui il presidente ideale per calciatori, allenatori, arbitri e opinione pubblica.
Andrea Agnelli e Barbara Berlusconi, il cuore manageriale del nuovo calcio italiano, avevano espresso con forza l’idea di uomini nuovi e figli di epoche recenti che conoscessero l’odore dell’erba e non solo quello delle carte.
La Gazzetta dello Sport, a gran voce, ha sostenuto in questi mesi l’ex centrocampista rossonero a suon di indagini e inchieste nel mondo del pallone italiano che hanno reso chiaro a tutti come ripartire da idee nuove e innovative fosse fondamentale oggi che l’ex campionato più bello del mondo non attira più talenti ma solo campioni sul viale del tramonto che a 35 anni decidono di venire in Italia in pensione.
Non sono bastati i dati della 'Rosa', a cambiare le sensazioni iniziali, non sono bastate le parole chiare e nette di Andrea Agnelli, né quelle disarmanti dello stesso Tavecchio che in conferenza stampa, come se nulla fosse, ripropose lo stereotipo degli africani che mangiano banane e vaglielo a dire, ora, agli ultras, che non è ammissibile il razzismo negli stadi.
L’elezione di Tavecchio rischia di essere l’ennesimo buco nell’acqua, l’ennesimo fallimento del calcio italiano che aspetta alla stazione il treno della rinascita ma, forse, è ancora sul binario sbagliato. Speriamo non sia così, saremmo tutti più felici.