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Quanto pesa il silenzio? Quanto è lunga l’attesa? Quanto costa il tempo che scorre sfibrante?
Non esiste un metro di misura, non c’è bilancia che registri l’angoscia e il tormento di una famiglia che ha perso un figlio, un fratello. Vivere sospesi nella speranza di conoscere un giorno la realtà dei fatti. È un dramma che soffoca la gioia di una madre, consuma le energie di un padre, ma alimenta al contempo il desiderio di verità, l’esigenza di giustizia.
Nadia Calvia lo sta sperimentando sulla propria pelle da oltre un anno. Da quando il cadavere di suo fratello Davide è stato ripescato dal mare il 22 aprile 2023 al largo di Lu Bagnu (Castelsardo), dopo giorni di ricerche.
UNA VICENDA DA CHIARIRE
Il 37enne era sparito dieci giorni prima, il 12 aprile, dopo essersi avventurato nel golfo dell'Asinara col cugino Giovannino Pinna, 35 anni, «per fare pesce». I due erano salpati a bordo di un’imbarcazione mai identificata, ma presumibilmente rubata a Porto Torres. In quelle ore, infatti, proprio a Porto Torres venne denunciato il furto di un motoscafo e non lontano dal molo venne rinvenuta la motocicletta di Pinna.
Alle 16 sarebbe partita la chiamata di quest'ultimo a un conoscente: «Stiamo imbarcando acqua, ci buttiamo in mare e aspettiamo i soccorsi». In breve sarebbero intervenuti la Guardia Costiera e i Vigli del fuoco non trovando traccia del relitto e dei naufraghi. Da lì in poi una fitta nebbia di dubbi, sospetti e perplessità.
Giovannino era stato ritrovato vivo il 13 aprile – giorno successivo al naufragio – poco dopo le 20. Era arenato sul litorale di Porchile, al nono pettine di Platamona. Semi assiderato, venne trasportato all’ospedale Santissima Annunziata di Sassari per il ricovero.
La vicenda aveva assunto fin da subito i contorni del giallo. Poca chiarezza su orari, dinamiche e motivazioni per cui i due – che non lavoravano nell’ambito della pesca e non possedevano imbarcazioni – si trovassero in mare aperto e su cosa avesse causato l'inabissamento del semicabinato. La stessa imbarcazione era andata persa e non è stata mai trovata. Pinna, interrogato dai carabinieri, aveva fornito ricostruzioni insoddisfacenti che avevano convinto la magistratura ad aprire un’inchiesta a suo carico, tuttora in corso, per omicidio colposo, naufragio colposo e furto di imbarcazione.
LA TESSERA MANCANTE
Un anno e mezzo dopo, alle 3 del mattino del 31 ottobre scorso, un natante affondato si è impigliato alle reti gettate a 35 metri di profondità dal motopesca “Espero” nelle acque di Marritza, non distante da dove fu ritrovato Pinna. Le coordinate del ritrovamento, puntualmente segnalato alla Guardia Costiera, hanno fatto scattare immediate connessioni col naufragio e la barca riportata a galla è ora a disposizione delle autorità per le analisi del caso.
«Non è certo che la barca sia quella sulla quale viaggiava mio fratello – spiega Nadia Calvia a Sardegna Live –. Stiamo aspettando che gli inquirenti ci diano notizie. Non sappiamo nemmeno se è già stata recuperata per essere analizzata».
Aspettare. C’è ancora aspettare.
«La mia sensazione rispetto a tutta la vicenda continua a essere la stessa: non capisco perché mio cugino si ostina a non dire la verità. Dubbi e perplessità ce ne sono tanti come ci sono sempre stati dallo scorso anno a oggi».
L’INTERVISTA
Che rapporti avevate con Pinna prima che accadesse l’incidente?
«Ottimi. Capitava spesso che mangiasse o dormisse a casa di mia madre. Il suo, dunque, è un atteggiamento del tutto ingiustificabile. Nei giorni successivi al fatto, la madre, essendo prevista una sola visita al giorno, ha negato a mia madre la possibilità di andarlo a trovare in ospedale per parlare con lui e sapere dove ha perso di vista Davide».
Come avrebbe potuto dare indicazioni precise se si trovavano in mare?
«Quando ha lanciato l’allarme era ancora giorno e in navigazione cerchi sempre dei punti di riferimento. Nella chiamata di sos ha detto chiaramente che si trovavano nella zona di Stintino e vedeva le ciminiere di Fiume Santo. Pochi minuti dopo sono arrivati i soccorsi con tanto di elicottero dei Vigili del fuoco, ma non c'era traccia di niente e di nessuno».
Pinna è stato ritrovato oltre 24 ore più tardi, stremato.
«Era dalla parte opposta rispetto al punto che aveva indicato al telefono. Anche sul suo ritrovamento avrei tante domande. A poca distanza da lui è stato trovato un paio di scarpe bagnate ma pulite: lo stesso modello che gli aveva regalato mia madre. Si parla di ipotermia, ma i parametri vitali erano buoni…».
Della fase successiva all’affondamento della barca cosa ha raccontato?
«Inizialmente racconta che, mentre nuotava, ha perso contatto con Davide, al quale si era sganciato il giubbotto salvagente, e lo ha sentito dire qualcosa come “Cugì, mollami! Salvati tu, io non ce la faccio”. A quel punto Giovanni, ormai in affanno, gli ha lasciato la mano e Davide è sparito nel nulla. Da questa ricostruzione si deduce che mio fratello sarebbe morto annegato».
E invece?
«E invece nel referto dell’autopsia si parla di “politraumatismo contusivo” e di “shock traumatico acuto” quale causa della morte. Mio fratello aveva una ferita in testa e in diversi punti del corpo».
Che idea ti sei fatta di quello che potrebbe essere successo quel giorno?
«Le idee son tante. Io lavoro in un bar, ho tanti clienti che mi riferiscono voci e indiscrezioni. È difficile capire quali siano fondate. Qualcuno suggerisce che quella notte potrebbero essere usciti per rubare del pesce, altri parlano di giri di droga. Altri ancora dicono che Giovanni e Davide fossero soliti uscire in barca e in quell’occasione, dopo essere salpati una prima volta in pieno giorno, hanno compiuto dei giri, sono tornati in porto, hanno incontrato delle persone, tutto alla luce del sole per ore. Non è l’atteggiamento di chi ha rubato una barca e agisce con prudenza per non farsi scoprire».
Chi racconta di questi movimenti?
«Mio fratello stesso. Scrive un messaggio a un’amica raccontandole: 'Siamo andati a fare i ricci e li abbiamo venduti'».
Anche su questo può far chiarezza solo Giovannino Pinna…
«Una cosa è certa: chi non ha niente da nascondere, racconta la verità. Lui non l’ha ancora fatto. Può essere anche successa una disgrazia, una fatalità. Va bene, non si può tornare indietro. Racconta come è andata: levati questo peso dalla coscienza e restituisci serenità alla famiglia. Ovvio che, se non lo fai, nella mente affiorano idee e ricostruzioni peggiori».
È emerso altro dalle sue parole?
«In uno scambio di messaggi con una ragazza il giorno dopo il salvataggio raccontava di onde alte come grattacieli, Davide con la bava alla bocca, lui che gli sciacquava la faccia e di un ultimo abbraccio con mio fratello che gli sarebbe morto tra le braccia. È una versione ben diversa dalla precedente. Chi racconta la verità racconta una sola verità. Chi fornisce molteplici versioni mente».
Perché dovrebbe mentire?
«Semplice: o sta coprendo qualcuno, o sta coprendo sé stesso. C’è un problema di fondo: non vuole o non può parlare».
Se Giovannino potesse ascoltarti, cosa gli chiederesti?
«Dimmi la verità. Cos’altro? Dimmi cosa è successo, dacci pace. Troviamo una soluzione insieme, ma facci sapere come è morto Davide. Mia madre e mio padre sono distrutti, meritano di sapere perché è morto il figlio».
Qual è il ricordo che hai di tuo fratello?
«Bastava sentire la sua voce e ti tornava il buonumore qualsiasi problema avessi. Mi mancano le cose semplici di tutti i giorni: i messaggi, le risate, le strimpellate che faceva con la chitarra. Non augurerei la sua fine nemmeno al mio peggior nemico. Speriamo che la barca recuperata ci racconti qualcosa».