La barba solenne, la voce pacata, impastata da migliaia di sigarette consumate in giro per il mondo a documentare in prima linea scenari di guerra e crisi internazionali. Dall'America Latina alla Somalia, dall'ex Jugoslavia al Medio Oriente.

Toni Capuozzo è un testimone prezioso, una voce indipendente, un osservatore acuto e capace di fornire sempre un punto di vista diverso ma sobrio, illuminante, scevro da condizionamenti e sovrastrutture.

Quando si parla di politica estera in un presente come il nostro, che apre a evoluzioni imprevedibili e difficili da calcolare, mettere la palla in mano a Capuozzo dà la serenità di poter capire meglio, la possibilità di denudare le contraddizioni, riannodare i fili, mettere in ordine i tasselli. Ascoltare Toni Capuozzo favorisce la chiarezza di chi sa ricostruire i meccanismi e le dinamiche di una stagione fatta di fragili equilibri e diplomazia boccheggiante, azzardi militari e tensioni politiche. Lo abbiamo intervistato.

La notizia più clamorosa di questi giorni è relativa al mandato di cattura internazionale per Netanyahu, che portata avrà?

«È un atto ufficiale e come tale va preso. Credo che sia destinato a imbarazzare più i governi europei che Netanyahu stesso. Significa che nessun Paese può essere visitato dal premier israeliano, pena l'obbligo di arrestarlo. Lo stesso vale per gli Usa, che sono grandi rifornitori di armi e hanno tradizionalmente il ruolo dei padrini di Israele dal punto di vista diplomatico e politico».

Per Netanyahu avrà un peso effettivo? C’è chi parla di una farsa.

«Alla fine, credo che si risolverà in un atto di sfiducia del mondo nei confronti della Corte penale internazionale. Succederà quello che è già successo con Putin, su cui pende un mandato di cattura, ma gira mezzo mondo (sebbene non il nostro mondo) e ha incontrato di recente persino il segretario generale delle Nazione Unite, il quale gli ha fatto un inchino. Questo a dimostrazione di una giustizia verbale e fanfarona che non sa tradursi in pratica».

La questione relativa ai rifornimenti di armi occidentali a Israele, a questo punto, come si risolve sul piano etico?

«Bisognerebbe lavorare sul terreno della diplomazia, convincendo Israele che l'unica soluzione che regali la sicurezza non è militare, ma un negoziato per la convivenza. Puoi essere armato fino ai denti, ma basta un attentatore suicida per cambiare la storia. Una qualche normalità può venire solo da un accordo con una maggioranza delle forze politiche palestinesi. Sarà decisivo riuscire a far gestire Gaza da una forza politica che non sia Hamas e semmai riversare soldi, invece che armi, per la ricostruzione».

Quale sarà l'impatto di Trump sui conflitti in corso?

«Tutto sommato calmierante, sicuramente su quello ucraino. Nei confronti del Medio Oriente, Trump ha fatto capire più volte di considerare suo avversario l’Iran, piuttosto che le organizzazioni palestinesi. L'appoggio a Israele contro l’Iran sarà più deciso, ma non credo che gli darà totalmente il via libera in Libano e a Gaza».

Com'è possibile che un personaggio così controverso sia tornato alla guida della più grande potenza del mondo? 

«È possibile innanzitutto perché era difficile individuare l'alternativa. Chi si occupa di politica estera sapeva che, fino a pochi mesi fa, Kamala Harris era una vicepresidente più che modesta. Quando Obama l’ha tirata fuori come un coniglio dal cilindro è sembrato che fosse stata unta dal Signore, ma era nota la sua debolezza e inadeguatezza dal punto di vista politico e dell'esperienza internazionale. I democratici, un po' come avviene anche alla sinistra europea, si sono dedicati molto alle cause dei diritti e delle minoranze trascurando lavoratori e classe media che affrontano problemi sociali senza una rappresentanza politica. Così, i lavoratori finiscono per votare a destra e gli intellettuali a sinistra».

I dem hanno sottovalutato le esigenze degli elettori?

«Hanno pensato che candidare una donna di colore e portare a suo sostegno endorsement a pioggia di star e cantanti avrebbe voluto dire convincere i giovani. Non è stato così. Non servono le quote rosa per scuotere l’assetto della politica, l’elettore guarda ad altro».

Della teoria del modello occidentale in crisi cosa pensa? Quale sarebbe l’alternativa?

«Un sistema pieno di magagne e incerto sul piano culturale è comunque il migliore tra quelli in circolazione. Le nostre democrazie, seppur scricchiolanti, riescono ancora a tracciare una linea rossa su diritti collettivi e individuali, libertà religiosa, parità di genere, diritti dei bambini, laicità dell'insegnamento. Poi, certo, dal punto di vista identitario è sempre più evidente l'incapacità di affrontare degnamente le migrazioni, la politica estera. Gli Usa sono in evidente declino nella capacità di governare il mondo. Ma il modello alternativo sarebbero i BRICS? Dentro c'è di tutto, da autocrazie come quella russa a democrazie come quella indiana. La maggior parte, più che modelli da imitare, sono modelli da evitare».

Anche la NATO sembra una macchina ormai obsoleta, non più in grado di affermare il proprio ruolo internazionale.

«L'ha già dimostrato in Afghanistan. Adesso sta facendosi punture rivitalizzanti con l'Ucraina, che rischia di trasformarsi in un ulteriore schiaffo in faccia alla NATO stessa. Credo che l'ambizione di allargarsi a est sia stata deleteria, poteva mantenere alleanze agili senza necessariamente andare sotto il naso dell'Orso russo a cui oggi non è in grado di rispondere. L’ho detto fin dal secondo giorno del conflitto: siamo andati in guerra fino all'ultimo ucraino».

Cosa pensa della possibilità di istituire un esercito europeo?

«Servirebbe innanzitutto una politica estera comune, e siamo lontanissimi dal trovare un accordo. Ci sono interessi industriali contrastanti tra un Paese e l’altro. Un esercito dell’Ue, tra l’altro, oggi non comprenderebbe uno degli eserciti europei più preparati e all’avanguardia, quello britannico».

La Francia oggi ha la boria della prima della classe e in Europa, forse, sembra brillare persino più della Germania. È solo un’impressione?

«Per loro è una convinzione, storicamente. Macron interpreta bene questo ruolo, ma in modo del tutto verbale, compresa l'ultima trovata di mandare dei contractor in Ucraina. Ma come? I francesi hanno interessi in mezza Africa e in genere ne escono sconfitti. Lì non hanno il coraggio di mandare i contractor, ma vogliono spedirli in Ucraina. È una grandeur imitata male».

Il ruolo dell’Italia nello scenario internazionale, invece, qual è? Qual è il peso specifico del governo Meloni?

«In ambito europeo, la conferma di Fitto alla vicepresidenza della Commissione è stato senza dubbio un suo successo. Quello che a me sembra del tutto deludente è la politica riguardo all'Ucraina. Era facile immaginare che non avrebbe detto “no” a Washington e Bruxelles una volta arrivata a Palazzo Chigi, ma ha interpretato il ruolo dell’obbedienza con un entusiasmo che lascia dei punti di domanda. Credo che sconti anche lei, come la totalità della classe politica italiana, una sostanziale inesperienza nei conflitti. La vocazione italiana, fin dalla Prima Repubblica, è quella della mediazione. Nella Seconda Repubblica, però, siamo stati pronti più a battere i tacchi che a mediare. Siamo alleati senza diritto di critica».

La classe politica italiana vive oggi una crisi identitaria e di autorevolezza. Dove sono finiti i nostri statisti? 

«Il declino della nostra politica è dovuto, fra l'altro, alla crisi dei partiti: prima erano una scuola permanente, formavano quadri, responsabili di sezione. Essere consigliere comunale o assessore nei paesi significava avere un ruolo importante. Adesso le ideologie sono svuotate, a destra e a sinistra. Esistono centri di potere senza una vera progettualità e privi di formazione politica. Un altro problema sono le liste bloccate. Prima il parlamentare curava il suo collegio, a fine settimana rendeva conto al cittadino. Oggi, con le liste chiuse, rispondono solo alla segreteria del partito per garantirsi il posto alle elezioni successive. Così la libertà di pensiero e l'iniziativa personale hanno difficoltà a emergere».

C'è davvero il rischio di un conflitto nucleare?

«La cosa che mi preoccupa è che, paradossalmente, dobbiamo puntare sul senso di responsabilità di Putin, che abbiamo definito un pazzo e ovviamente non mi piace. Stiamo andando a vedere se bluffa o non bluffa. Io non mi fiderei tanto».

Qual è lo stato di salute della stampa italiana? Che opinione ha del racconto odierno degli scenari di guerra e delle crisi internazionali? 

«È un racconto per nulla incisivo, molto conformista. La stampa italiana non sa porsi né dubbi né domande».