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Vivere ai confini del mondo. Lontano da tutto, a oltre 3.200 m di altitudine, in una struttura in metallo ricoperta da pannelli altamente isolanti, immersa per quattro mesi nell’oscurità del Polo Sud e irraggiungibile per buona parte dell’anno a causa delle condizioni climatiche estreme e proibitive. Non è l’inizio di un romanzo distopico, ma la singolarissima esperienza di scienziati e ingegneri che lavorano presso la Base Concordia, stazione di ricerca europea situata nel plateau antartico, in un sito denominato Dome C.
La Concordia è figlia di un accordo congiunto tra l'ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l'Energia e l'Ambiente), e l'Istituto polare francese. La prima installazione temporanea del 1996 nacque come supporto logistico alla missione EPICA, progetto di perforazione a carotaggio continuo della calotta glaciale fino alla base rocciosa per una profondità totale di 3.270 m.
Un lavoro che ha permesso, tramite le analisi isotopiche effettuate sui campioni di ghiaccio e sull'aria imprigionata all'interno, di ricostruire le variazioni climatiche in Antartide degli ultimi 720.000 anni. Visti gli straordinari risultati conseguiti, dal 2005 la Concordia è stata trasformata in una stazione scientifica permanente.
Dell’equipe di studio che abita una delle lande più desolate e inospitali del globo ha fatto parte negli ultimi anni anche il 47enne Marco Buttu, ingegnere di Gavoi, che ci ha raccontato la propria esperienza.
Qual è il tuo percorso di studi e come sei arrivato a uno sbocco professionale così affascinante?
«Dopo aver conseguito il diploma a Gavoi, mi sono laureato in Ingegneria elettronica all'Università Cagliari. Poi sono stato per sei mesi in Svizzera all'EPFL, il Politecnico federale di Losanna. Tornato a Cagliari per lavorare all'Istituto Nazionale di Astrofisica, dopo diversi anni, quasi per caso, ho risposto via mail a un'offerta di lavoro in Antartide per una spedizione nella stazione Concordia. Così sono finito là».
Come fa un giovane ricercatore a ottenere un’opportunità di lavoro come la tua?
«Non è un’opportunità esclusiva e io non sono un genio, ma una persona normalissima. Non servono capacità eccezionali, ma una preparazione tecnica media e un’attitudine psicologica che ti consenta di vivere in quelle condizioni, questo forse è l’aspetto più determinante».
A quante spedizioni hai preso parte?
«La prima è iniziata nel 2017 ed è terminata alla fine del 2018. Mi hanno riconvocato nel 2021, per tutto l'anno. La terza spedizione ha preso il via a fine 2023 ed è terminata pochi giorni fa».
Le spedizioni durano circa un anno.
«Sì, iniziano più o meno a novembre e finiscono a novembre o dicembre dell'anno successivo. La lunga durata è legata al fatto che quando arrivi in Antartide è estate, ma da febbraio a novembre la base è irraggiungibile e non è più possibile abbandonarla. Quando arriva la nuova squadra, poi, si lavora per un paio di settimane al passaggio di consegne prima di andar via».
Chi coordina i lavori della base?
«Le spedizioni nella Concordia sono gestite in cooperazione da Italia e Francia. Dunque, le persone che vivono nella base durante la stagione invernale sono per metà italiane e per metà francesi. Gli italiani sono assunti nell'ambito di un programma nazionale che si chiama Programma Nazionale di Ricerche in Antartide».
Quali figure compongono il team?
«La parte tecnica è gestita normalmente dalla Francia e prevede un responsabile dei generatori, un meccanico, un idraulico, un elettricista. Poi abbiamo il cuoco, solitamente italiano, un medico, un responsabile delle telecomunicazioni. Il resto sono operatori scientifici: uno si occupa di sismologia e geomagnetismo, un astronomo, un meteorologo, un fisico dell'atmosfera e due glaciologi. Io, nello specifico, mi sono occupato di astronomia, geomagnetismo e sismologia. Poi si lavora anche sulla biologia umana, l'Agenzia Spaziale Europea, infatti, ci studia per capire come il corpo si adatta a un ambiente praticamente extraterrestre».
La vostra è una vita che ricorda molto quella degli astronauti.
«Noi non viviamo nella costa antartica, ma nel centro del continente, siamo gli esseri umani più isolati al mondo. Le condizioni di vita sono talmente estreme che ricordano quelle che si possono avere in un altro pianeta».
Qual è la distanza fra voi e il primo insediamento?
«Ci sono tre basi nel centro dell'Antartide: una è statunitense, l'altra è russa, poi ci siamo noi europei. La base più vicina è quella russa, che dista circa 600 chilometri».
Perché è importante fare ricerca in Antartide? Che informazioni conserva?
«L'Antartide è un laboratorio a cielo aperto, è talmente incontaminata che vi si ritrovano immutate le condizioni del lontano passato, non essendoci insediamenti antropici oltre le basi di ricerca. Nel centro dell'altopiano antartico, dove siamo noi, si possono compiere ricerche sul clima che non possono essere fatte in nessun altro posto al mondo, perché il ghiaccio è spesso più di tre chilometri e quando si effettuano le perforazioni si arriva a studiare la composizione atmosferica della Terra fino a oltre un milione di anni fa».
Come è possibile?
«La glaciologia è oggi una scienza fondamentale per lo studio del clima del passato. All'interno del ghiaccio, infatti, sono incapsulate piccole bolle d'aria che contengono l'atmosfera del periodo in cui sono rimaste intrappolate. Significa che più si scende in profondità, più si va a ritroso nel tempo. Gli strati di ghiaccio più profondi si sono formati circa 34 milioni di anni fa. Non tutte le informazioni, però, sono recuperabili. Riusciamo a risalire fino a qualche milione di anni a una risoluzione molto alta».
Come trascorrono le giornate durante le spedizioni?
«Dipende dal periodo. Quando è ancora estate, le temperature sono sotto lo zero di decine di gradi ma la base è raggiungibile ed è abitata in media da 50-60 persone, le attività sono frenetiche per tutta la giornata. D’inverno i ritmi sono più lenti. Siamo 13, la temperatura scende sino a -80 °C, bisogna fare attenzione a tante cose, in primis alla sicurezza perché nessuno ti può soccorrere. Essendo un piccolissimo gruppo di persone, devi stare molto attento anche ai rapporti interpersonali».
Qual è la giornata tipo durante l’inverno?
«Essendo notte per lungo tempo, i ritmi circadiani sono completamente sballati, la giornata lavorativa inizia tra le 4 e le 9 del mattino. C'è questa grande variabilità perché non tutti riescono a dormire allo stesso modo. Si lavora fino a mezzogiorno e si pranza tutti assieme. Si riprende a lavorare fino alle 17-18 e poi si trascorrono dei momenti di svago, parte del personale si dedica all’attività fisica in una piccola sala attrezzata. Poi si cena insieme, si chiacchiera, ci si confronta prima di andare a dormire. Per 9 mesi la routine è questa».
Per quanto tempo non sorge il sole?
«Il sole non sorge per cento giorni, ma il buio c'è per circa quattro mesi perché, anche quando il sole sorge, è visibile solo per pochi minuti e si hanno comunque quasi 24 ore di oscurità».
Cosa fate per spezzare la monotonia?
«Il sabato si tende a organizzare qualcosa di diverso. Festeggiamo tutti i compleanni: il cuoco prepara una cena speciale per quelle occasioni, solitamente col cibo preferito dal festeggiato. Durante la mia prima spedizione, c’era una ragazza che ogni sabato per nove mesi ha organizzato una serata a tema. Per la serata McDonald's aveva preparato il menù cartaceo e sembrava di stare in un fast food. Ci fu poi la serata a tema Romani e Galli, come Asterix e Obelix, provammo a travestirci con quello che trovammo in stazione».
Durante l’anno che alimentazione seguite?
«Per la colazione ci si autogestisce. Il pranzo e la cena vengono preparati dal cuoco. Durante l’estate, essendo la base raggiungibile, si mangia un po' di tutto. In inverno è completamente diversa anche la gestione del cibo, ad esempio non abbiamo frutta fresca. Ma se il cuoco è bravo a gestire le derrate riusciamo ad avere carne, pesce, pasta, riso, verdure congelate per tutta la durata della spedizione. Quest'anno, addirittura, avevamo della verdura fresca perché abbiamo sperimentato una coltivazione idroponica che ci permetteva di avere delle piccole piantine».
Quanto è difficile mantenere un equilibrio fra i membri del team durante una convivenza così lunga e forzata?
«Prima di partire, seguiamo un periodo di formazione con una psicologa che ci dà una serie di consigli per gestire lo stress e prevedere tutte le situazioni nelle quali potremmo trovarci. È una preparazione che inizialmente ha i suoi effetti. Man mano che il tempo passa, però, diventa sempre più complicato gestire i rapporti interpersonali. Si va un po' ad intuito, si cerca di essere il più possibile flessibili e tolleranti. Gli ultimi mesi sono i più delicati e mentalmente impegnativi da quel punto di vista. L’esperienza aiuta molto».
Qual è l’esperienza più insolita che hai vissuto?
«Non c’è una cosa particolarmente sorprendente perché è davvero tutto strano. Vivi in un ambiente in cui non si trovano i soldi, al di fuori non c'è nessun altro essere vivente, non esiste un carcere, quindi, per assurdo, potresti commettere un crimine e per nove mesi nessuno verrebbe ad arrestarti. Sono tutte condizioni completamente anomale. Ho avuto la conferma di tutto quello che più o meno mi immaginavo anche sui comportamenti umani in un ambiente così circoscritto».
Questo è persino inquietante.
«Potrebbe sembrarlo, ma in realtà non lo è, perché siamo tutti professionisti selezionati anche e soprattutto dal punto di vista psicologico. Non ci sono fra noi persone che hanno degli squilibri mentali, ovviamente».
Qual è il livello di progresso dell'Italia dal punto di vista della ricerca scientifica in quest'ambito?
«Siamo al top, se consideri che la Base Concordia è l'avamposto umano più isolato della Terra. La stazione italo-francese svolge un ruolo di primo piano a livello mondiale al pari di Russia e Usa».
C'è una situazione nella quale ti sei sentito particolarmente a rischio?
«Si è a rischio soprattutto all'esterno, dove serve massima attenzione perché capita di lavorare al buio, a -75 °C, magari col vento. Lì il pericolo più grosso è quello di farsi male scendendo ad esempio in una botola (molti contenitori si trovano sotto la neve) e dover stare fuori a quelle temperature in attesa dei soccorsi. Ogni mese facciamo delle esercitazioni proprio per ridurre i tipi di recupero. Poi devi sperare che, anche dal punto di vista medico, non succeda nulla che non possa essere risolvibile in base. Banalmente, se hai un mal di denti che non si riesce a curare devi sopportarlo per 9 mesi».
Come vivi il ritorno in società dopo tutto quel tempo?
«Per me è come un risveglio. Dopo un anno in cui sei stato in mezzo al ghiaccio, al bianco, è si riattivano tutti i sensi, profumi, colori, la temperatura, il sole sulla pelle, il vento sulla pelle che prima non sentivi perché indossavi la tuta isolante. Conoscere persone diverse, parlare di cose nuove dopo che per un anno hai sempre parlato delle stesse questioni».
L'idea di avere una famiglia può coesistere con questo tipo di lavoro?
«Può coesistere per poche spedizioni. Il mio è un caso eccezionale, conosco solo un collega che ha compiuto tre spedizioni, ma vive solo. Io ho una moglie, ma dalla prima spedizione a oggi è cambiato tutto. All’inizio non avevamo internet, quindi ci vedemmo solamente quattro volte con delle videochiamate sgranate, dove c'era un ritardo assurdo. Oggi la gestione dei rapporti con la famiglia è semplicissima, con la possibilità di fare diversi videocollegamenti al giorno e vedere mia moglie quando voglio».
Qual è il valore umano del tuo lavoro e dell’esperienza che porti a casa al termine di ogni spedizione?
«Sono esperienze che mi permettono di vivere come piace a me, fuori dai canoni della normalità. In simili condizioni ci si mette totalmente in gioco, bisogna cercare di capire ciò che si dovrà gestire, i conflitti che potranno sorgere con gli altri, ci si confronta con situazioni diverse rispetto a quello che ci si immaginava. E soprattutto ci si rende conto che, nonostante le convinzioni personali, non ci si conosce mai abbastanza. Questo è sempre sorprendente. Abbiamo l'idea di saper tutto di noi, ma in certe situazioni ci rendiamo conto di essere meno di quello che pensavamo, o a volte addirittura meglio di quel che credevamo. È un'esplorazione a 360 gradi dell'ambiente e del mondo, ma anche di sé stessi».