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Urla e lamenti, versi animaleschi, riti apotropaici, sangue e sudore, orbace e velluto, pelli, funi e mastruche. La fertilità e la morte, l'uomo e la bestia, il peccato e la redenzione. Il suono lugubre dei campanacci, l'incedere ritmato di arcane figure, i volti anneriti dalla fuliggine o nascosti da maschere di legno dalle espressioni grottesche, antropomorfe, demoniache, taurine.
Il carnevale sardo non ha la grazia e l'eleganza delle passerelle veneziane, i suoi personaggi mancano della gioiosa baldanza di Arlecchino e Pulcinella. Lo aveva ben chiaro lo scrittore Salvatore Cambosu, che nel 1954 dipingeva la suggestiva sfilata di Mamuthones e Issohadores di Mamoiada come il passaggio «dell'armento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori». Quello barbaricino, parole di Cambosu, è «un carnevale triste, un carnevale delle ceneri: storia nostra d’ogni giorno, gioia condita con un po’ di fiele e aceto, miele amaro».
UNA FESTA MALINCONICA
Intendiamoci, da Ovodda a Fonni, da Sedilo a Oristano, il carnevale è festa e motivo di gioia come in ogni angolo del mondo. Si sorride e si assapora la vita, travolti dalla goliardia del momento e dall'ebbrezza di un buon bicchiere di vino. Ma nel riproporsi di tante cerimonie ancestrali c'è davvero un fondo di malinconia, la gioia mai del tutto svincolata dalla riflessione sul tempo e sulla memoria.
Le maschere stesse e i riti che le riguardano sembrano evocare una sensazione di estraneità e solitudine, quasi a voler ricordare qualcosa di dimenticato o perduto. Questo contrasto tra il festoso e il tragico è proprio quello che dona al carnevale sardo una dimensione unica e complessa da interpretare.
BANDINU: «I SARDI NON MALTRATTANO GLI ANIMALI»
Il rapporto delle comunità isolane col mondo animale è viscerale, costruito su antichi equilibri e su un rispetto la cui cifra, certamente, pare spesso incomprensibile al mondo altro, fatto di sensibilità diverse e spesso difficilmente conciliabili con un universo che, pur nella sua contemporaneità, vive di respiri che prendono fiato nella notte dei tempi.
È di questo avviso Bachisio Bandinu, giornalista, scrittore e antropologo, che intervistato da Sardegna Live in merito alle polemiche che di recente hanno travolto in particolar modo i carnevali di Sedilo e Ovodda osserva: «Non sono d'accordo con chi sostiene che a Sedilo o altrove in Sardegna, in occasione delle feste tradizionali, si maltrattino gli animali. Su Sedilo, già in passato, è stata fatta polemica da chi ritiene che la stessa Ardia sia una manifestazione nella quale si sottopongono i cavalli a stress indicibili. Invece io so dell'amore sconfinato dei sedilesi per i propri cavalli e dell'abilità con la quale si lanciano in queste corse spettacolari».
«Il mondo dei pastori — afferma Bandinu — è una civiltà rude e cruda perché la vita degli animali è rude e cruda, ma ciò non significa che la società pastorale sarda faccia soffrire gli animali. Che a Ovodda circolasse un cammello durante il carnevale, questo neppure lo sapevo. Devo dire che è una cosa che personalmente non mi piace, ritengo che bisognerebbe tener fede alla tradizione senza aggiungere iperboli e accentuazioni così esagerate».
«SOLO NOI POSSIAMO CAPIRE»
«Ma al di là di questo — ancora Bandinu —, gli animalisti sbagliano a muovere verso i sardi accuse di maltrattamenti agli animali. La vita del pastore, quella che ho vissuto con mio padre, era una vita terribile quanto quella degli animali. Dormivamo in terra in un ovile di due metri quadrati su una stuoia o sulla bisaccia del cavallo. Ma la misura di quella vita dura era l'amore per gli animali, non la violenza nei loro confronti».
«Gli urbani e gli intellettuali che non vivono in Sardegna fanno fatica a capirlo — riconosce l'antropologo di Bitti —. Se si guarda alle cose della Sardegna con il metro di misura lombardo (ho vissuto in Lombardia per vent'anni, so di cosa parlo) è difficile trovare una chiave di lettura. Devi capire l'antropologia del luogo per comprendere le azioni e i sentimenti della sua gente».