Cagliari, è un giovedì mattina di una bella giornata scaldata dal sole di ottobre quando parcheggio nella piazza dei centomila. Vengo subito avvicinato da un uomo, il solito senegalese che ormai siamo abituati a trovare nei parcheggi di ogni dove.

Quello che vorrebbe venderti fazzolettini, accendini, stracci e poco altro. Quasi un moto di fastidio pervade tanti automobilisti, quando nel cercare parcheggio vengono immancabilmente avvicinati da questi ragazzi.

Mi presento: "Ciao, io sono Patrizio, tu?" Lui è Mudù e mi dice con il gesto della mano alla bocca che in sardo significa "stai zitto", ma subito dopo per soddisfare la mia curiosità, mi spiega che il vero significato del suo nome è "Dono di Dio". Entriamo un pò in confidenza e faccio qualche domanda, così mi racconta che ha lasciato il suo paese perché non trovava lavoro. Anche l'Italia però non si è dimostrata il bengodi che aveva in mente.

Mudù, il "Dono di Dio" tra sacrifici e speranze a Cagliari

È arrivato nel bel Paese circa 10 anni fà, ha provato a trovare un impiego ma non è stato fortunato. Tra caporali, cooperative e sfruttamenti ha cambiato diverse città prima di approdare a Cagliari. Qui non gli resta che rinunciare alla cena quotidiana per risparmiare ogni giorno ben 2 euro sonanti. Una cifra che alla fine del mese manda alla famiglia rimasta in Senegal, dove vivono tuttora due mogli e 7 figli. È triste Mudù, perché da 5 lunghi anni non si può permettere di andare a trovarli, vederli, toccarli. Godere della gioia che ogni uomo libero vorrebbe e dovrebbe poter avere.

Migranti e nuove politiche: il dibattito sull'accoglienza in Albania

Tutto questo succede quando nei palazzi istituzionali si accende lo scontro, Governo da una parte, magistratura e opposizioni dall'altra. Il conflitto istituzionale verte sulla decisione di dirottare in Albania, in un centro di accoglienza appositamente creato, migliaia di ragazzi che sbarcando in Italia sognano una vita perlomeno dignitosa. Un lavoro, uno stipendio, una casa dove portarci l'intera famiglia. Non immaginano (perché prima di partire nessuno glielo dice), che la sorte di Mudù sarà nella maggior parte dei casi pure la loro. Non sanno che anche il centro di accoglienza di Monastir non è un albergo a 5 stelle. Non ha la piscina, ne lenzuola di seta e nemmeno la SPA. Quei locali che trasudano miseria, sporcizia, cibo scadente, ma anche e soprattutto tristezza e nostalgia, ricordano piuttosto dei lager.

Passo di lì ogni mattina, li sorpasso o li incontro, mentre centinaia di ragazzi si muovono a piedi, o ben che vada con vecchie biciclette o monopattino, per attraversare la statale 131 alla ricerca di qualche occasione per racimolare qualche soldo. Il nuovo schiavismo che nessuno vuole nominare, ma c'è. Una fiumana di gente che accetta supinamente di lavorare in condizioni estreme e per salari inaccettabili, rendendo così un facile servizio alle multinazionali e al nuovo sfrenato neoliberismo che da circa trent'anni pervade l'Europa. Quell'ideologia che favorisce la concorrenza sleale e costringe anche gli italiani lavoratori ad accontentarsi di accordi sindacali basati sulla logica del "contenimento del danno", ma anche gli imprenditori locali a operare sul solco dello sfruttamento di manodopera a basso costo.

Io non so se deviare questo traffico umano in Albania sarà utile oppure solo dispendioso, non so se ci farà risparmiare sulla sanità, se servirà a far cessare i piccoli reati, il racket della droga, o gli abusi sessuali. So di per certo però che ogni mattina fuori dal centro di Monastir non vedo delegazioni politiche, bandiere o trombette, ne giudici o sindacati sul piede di guerra. Non vedo e non sento proteste in aiuto di questi poveri disgraziati.

Migranti tra sfruttamento e indifferenza

Ragazzi che potrebbero essere nostri figli e che ogni giorno, a piedi o in bicicletta, si avviano tristemente a formare un esercito di schiavi, che in un vortice incolpevole contribuiscono al divario sempre crescente tra pochi ricchissimi e molti, troppi poverissimi. Una escalation di regressione del benessere che colpisce i ceti più bassi, già duramente messi alla prova dagli aumenti sempre crescenti che tutti noi viviamo quotidianamente anche quando andiamo al supermercato. Tutto questo avviene in una logica menzognera di un Europa unita nell'esclusivo interesse delle grandi concentrazioni di ricchezza.

Un'istituzione, la UE, nata sotto l’auspicio di evitare altre guerre per il controllo delle materie prime, ma mutata poi in strumento politico al servizio dei grandi poteri economici: banche, multinazionali, fondi comuni di investimento. Poteri che ottengono sistematicamente e celatamente norme e manovre finanziarie che puntano a favorire i loro ingenti profitti.

A discapito delle piccole e medie imprese che nel recente passato, sostenute e controbilanciate da una politica economica di stampo keynesiano, ci hanno permesso di vivere l'unica epoca in cui le diseguaglianze economiche erano al minimo storico.