PHOTO
Programmi tv, web series, fiction, inchieste giornalistiche, documentari, libri, approfondimenti. La violenza fa paura, ma genera interesse. I criminali inquietano, ma affascinano. Come se capire chi sono, ricostruirne la personalità, scoprire gli aspetti più intimi della loro esistenza ci permettesse di esorcizzarne la ferocia, allontanare la paura del mostro, trovare la chiave per decodificarne le dinamiche psicologiche.
Letteratura, stampa e cinema, da sempre, indagano gli angoli più oscuri e reconditi dell’animo umano, ma il genere crime forse mai come oggi ha ricoperto posizioni di primo piano nelle abitudini di lettura e ascolto del pubblico.
Da Romanzo Criminale a Gomorra, da Dahmer a Monsters, sono tantissimi i racconti diventati col tempo fenomeni mediatici, ammantando talvolta di un’aura quasi eroica personaggi negativi e terribili, le cui azioni hanno in molti casi determinato conseguenze drammatiche nelle esistenze di tanti.
Il podcast, in particolare, è un media che negli ultimi anni sta generando una mole crescente di ascolti e interazioni e anche in Italia in tanti hanno scommesso su questo nuovo format. La categoria crime, manco a dirlo, è fra quelle di maggior successo: da Demoni urbani di Francesco Migliaccio a Elisa True Crime di Elisa De Marco, passando per Indagini di Stefano Nazzi. Quest’ultimo, giornalista 63enne de Il Post, di recente è tornato anche in libreria con il libro Canti di Guerra. Conflitti, vendette, amori nella Milano degli anni Settanta (Mondadori), un resoconto della Milano di Renato Vallanzasca, Francis Turatello e Angelo Epaminonda.
Con Indagini, Nazzi ha scalato in breve le classifiche di Spotify col suo stile preciso e lineare, in grado di accompagnare l’ascoltatore attraverso le trame del male senza cercare lo scandalo, senza accarezzare i sensazionalismi. “Vi racconterò queste storie tentando di mostrarvi non tanto il fatto di cronaca in sé – spiega all’inizio di ogni puntata –, bensì tutto quello che è successo dopo, le indagini giudiziarie e i processi con le loro iniziative, le loro intuizioni e i loro errori, il modo in cui le indagini hanno influenzato la reazione dei media e della società e il modo in cui i media e la società hanno influenzato le indagini”.
Lo abbiamo intervistato.
Perché il genere crime e la cronaca nera attirano l’attenzione di un pubblico sempre più nutrito?
«A dir la verità, questa attenzione c'è sempre stata. Se andiamo a vedere anche i giornali di 50-60 anni fa, la cronaca nera ha sempre occupato moltissimo spazio. Oggi ci sono mezzi come i podcast o le serie tv sulle piattaforme che rappresentano una nuova possibilità di racconto di queste storie. Questo ovviamente ha determinato un’espansione del pubblico».
Le storie che lei racconta ci mettono di fronte un’evidenza inquietante: il mostro, spesso, si nasconda in contesti insospettabili ed è talvolta al di sopra di ogni sospetto.
«Secondo me non esistono i mostri. Quella che viene chiamata “mostrificazione” è un po' consolatoria. Ci fa pensare che persone che fanno determinate cose, per noi impensabili e agghiaccianti, siano un'altra cosa rispetto al genere umano. Non è così. Sono persone che, anzi, spesso vivono nelle nostre comunità».
Come arrivano a compiere azioni così efferate?
«C'è sempre un prima, nel senso che uno non commette atti del genere di punto in bianco. Gli stessi psichiatri spiegano che non esiste il raptus, non è una patologia riconosciuta. C'è un percorso che porta chi fa del male ad altre persone ad arrivare a tanto. Però, appunto, non sono mostri, abitano nel nostro mondo e questo è una cosa con cui dobbiamo fare i conti».
Il ruolo della stampa è determinante nella rappresentazione di questo tipo di dinamiche, per questo è spesso oggetto di critiche e contestazioni. Qual è il confine tra diritto di cronaca e morbosità?
«Sta tutto in come si parla di queste cose. Bisogna tenere sempre a mente il concetto del rispetto. Cioè: rispettare le vittime, le famiglie delle vittime, ma anche le persone coinvolte che a volte compaiono nelle storie senza avere la minima responsabilità rispetto per i fatti. Io cerco di allontanarmi dall'aspetto più emotivo, concentrandomi più sui fatti. C'è poi anche il rovescio della medaglia: spesso l'attenzione mediatica fa in modo che su queste storie non cali in silenzio, in modo che chi indaga non le trascuri».
Fra tutte quelle che ha incrociato, qual è la vicenda che l'ha colpita di più?
«Le vicende che colpiscono di più sono quelle che riguardano i più fragili, i bambini. Poi colpiscono molto le storie per le quali non si riesce a trovare una minima ragione logica, come quella delle Bestie di Satana verificatasi tra le province di Milano e Varese. Ancora oggi i protagonisti non sanno spiegare perché agirono in quel modo».
Perché certi personaggi, dopo essersi macchiati di crimini orribili, vengono avvolti dal mito?
«È una domanda a cui è difficile rispondere. C’è addirittura chi ci entra in contatto una volta che loro sono in carcere e se ne innamora. C'è una parte forse oscura, più nascosta in tutti noi, che viene solleticata ed eccitata dalle storie di queste persone. E anche forse la curiosità, l'interesse di capire come e perché queste persone hanno agito in quel modo, che cosa è scattato in loro».
Quali sono i suoi riferimenti dal punto di vista della formazione professionale nel racconto della cronaca nera?
«Il riferimento di tutti quelli che si occupano di crime è lo scrittore statunitense Truman Capote con il libro A sangue freddo. Poi ci sono dei grandissimi narratori, come Emanuele Carrère, che racconta la realtà riuscendo a scriverla come un romanzo».
Altra questione molto dibattuta: secondo molti, rappresentare e romanzare il crimine avvicina i giovani ad un modello sbagliato.
«È una storia che va avanti dai tempi di Gomorra. Ma la camorra non l’ha creata Saviano. I giovani che si avvicinano alla criminalità non lo fanno per le serie tv, si avvicinano per le situazioni che vivono, per i modelli che vedono nelle loro comunità, perché non hanno altre prospettive, oppure scelgono quella prospettiva pur avendone altre. Non è una serie tv a creare un criminale. Ci vuole ben altro».
Ha mai avuto a che fare con qualcuno dei criminali che ha raccontato?
«Mi è capitato, ad esempio, di incontrare qualcuno proprio delle Bestie di Satana. Gli incontri con queste persone in carcere sono molto forzati e falsati dalla loro condizione di detenuti. Non sai mai se quello che ti mostrano sia il loro vero aspetto, o se ci sia un approccio manipolatorio di chi tenta di apparire come altro. Sono situazioni molto delicate».
Il suo ultimo libro racconta una pagina epica della criminalità milanese, incrociando fra loro le storie di tre grandi protagonisti. Che contributo dà il suo racconto a quanto già scritto sulla cronaca di quegli anni?
«Ho voluto raccontare com'era la Milano di prima, con una media di 150 omicidi all’anno, ma anche l'Italia in quegli anni. Ho cercato di far capire come sia cambiato il nostro Paese, come certe figure non esistano più, non avrebbero più la possibilità di agire come agivano un tempo. Come sia cambiata la criminalità, che oggi è molto più nascosta, dietro le quinte. Quelle erano figure che amavano mostrarsi, mitizzare sé stesse, raccontarsi».
Se Vallanzasca e Turatello erano “star” della mala, su Epaminonda non esiste una particolare letteratura. Come mai?
«Perché forse era il meno istrionico dei tre, nel senso che sia Turatello che Vallanzasca erano molto narcisisti, capaci di costruire il loro mito. Epaminonda era un uomo feroce che si è macchiato di moltissimi omicidi, ma “meno spettacolare”, meno personaggio. Eppure, è stato una figura dalla ferocia inaudita e dall'ambizione criminale veramente molto forte».
Se avesse la possibilità di incontrare Vallanzasca, cosa gli chiederebbe?
«Oggi Vallanzasca soffre di una malattia neurodegenerativa e non è più presente a sé stesso. Domande glie ne hanno poste tante, perché lui ha sempre parlato molto volentieri con i giornalisti. Personalmente gli chiederei qual è stato il suo punto di svolta, qual è stato il momento in cui da piccolo criminale di quartiere è diventato il criminale numero uno».
È vero che i malavitosi di un tempo avevano un'etica che oggi si è persa?
«Secondo me è un po' un mito da sfatare. Quest’etica criminale veniva molto raccontata, ma nei fatti non è che si vedesse molto. Venivano sequestrate persone, bambini, ragazzine. Rimanevano coinvolte vittime innocenti che non c'entravano nulla con i loro affari».
Oggi si continua a parlare di una Milano insicura. Quali sono le emergenze dei nostri giorni?
«Non è che oggi non esista più la criminalità, è diversa. Non si spara nelle strade come prima, ma ci sono reati molto evidenti e in crescita (furti, aggressioni, stupri) e la microcriminalità determina una profonda percezione di insicurezza. E poi c’è ancora la criminalità organizzata, nascosta, che si infiltra nelle società, nelle aziende, nei locali, nei ristoranti, nelle attività».
Ha mai incrociato nella sua carriera personaggi legati alla malavita sarda?
«Nella storia dei tre criminali di cui ho scritto nel mio libro, a un certo punto entra anche Graziano Mesina. Venne accolto da Francis Turatello qui a Milano quando era evaso dal carcere, fu ospite della criminalità milanese e partecipò a diverse azioni qui in città. Sicuramente mi vorrò occupare dell'Anonima Sequestri sarda, che ha rappresentato una pagina importante e terribile del nostro Paese».