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Cala il sipario, lo spettacolo è finito. Gli spettatori si alzano e appaiono ancora prigionieri di un pathos totale, dopo essere stati rapiti dalla realtà per stare lì, al buio della notte, come in un sogno struggente, per vedere e osservare sagome indistinguibili, apparentemente umane. Che sono immobili, ora “ancorate”, nella suggestiva area esterna del Museo del Vino, a una roccia o un masso, quasi a formarne un unico corpo; ora, invece, in piedi, ritte e dai tratti austeri quanto impenetrabili e misteriosi.
Ma questa è solo la parte iniziale del sogno, fino a quando non compare il primo movimento di un’anima reincarnatasi, quello lento, ieratico, di un uomo ingobbito dal tempo, avvolto dalle ombre della notte che contribuiscono ancor più a renderlo tale.
Ha l’aria di chi conosce bene il terreno dove i suoi passi si posano leggeri, morbidi e prudenti, quasi a voler essere delicato per rispetto della madre Terra. Già, la madre Terra, che per l’uomo, Tiu Paule, voce dei bandos a Magomadas provata dal logorio dell’esistenza, è il Camposanto, sa Tanca ‘e Aldosa. Il suo incedere appare quello consapevole del “padrone di casa”. E infatti lo è, è s’interra mortos, il becchino, l’ultimo. Che ricurvo su se stesso e con un piccolo innaffiatoio-aspersorio irrora fiori e asperge tombe e anime.
A un certo punto si ferma e dopo un rassegnato iscuru nois, poveri noi, rivolto ai “suoi” defunti declama: <<…anime belle, di terra e di cielo, noi siamo qui nella clessidra del tutto e del niente, dove non brillano speranze, ma ricordi, né primavere fiorite e brulli inverni, ma solo mute stagioni>>.
Dopo queste parole, ecco l’invito alle anime medesime, che lasciano le tombe riprendendo improvvisamente le loro effigie della vita terrena: <<…Senza timore di giudizio, andate lievi ai vostri libri di esistenza, la vita vostra rivelatecela…. con animo sincero. Beni, beni, vieni, vieni, Antonicu Cappellu. Dal buio pesto esce e avanza, appena schiarita dai lumi cimiteriali, una figura contrita, consumata dal dolore di una vita vissuta tra “stenti e oblio”, durante la quale, dice, <<Forse sarebbe bastato solo un po’ d’amore>>. Parole che scuotono, inascoltate in ogni tempo e ovunque, ancora oggi, in una società dove si corre sempre di più e si riflette meno sull’insegnamento del passato.
Ad Antonicu Capellu - magistralmente interpretato dall’autore, Luciano Sechi, del libro “TANCA ‘E ALDOSA, La collina di terra rossa, a cui si è ispirato il regista e attore Alessandro Arrabito Campus, mirabile nei panni de s’interra mortos - hanno fatto seguito le altre anime, chiamate a raccontare uno spaccato della loro vita terrena.
Storie di errori e perdoni, di pentimenti, di rimpianti e rimorsi, di dolori e di riscatti, di guerre. Contestualmente, perché così è la ruota della vita, racconti e richiami di gioia e allegria, di desiderio di pace e armonia di una comunità, quella di Magomadas, che non ha mai dato segni di resa, di cedimenti, rispetto alle traversie dell’esistenza e in ancestrale coerenza con i diritti primari della persona umana, quali quelli legati alla vita, alla libertà individuale, alla giustizia per tutti.
A seguire, due brevi video, che vedono protagonisti, tra le tante anime a cui è stata data voce, tre attori: Mauro Sechi, Sonia Congiu e Vincenzo Marongiu, rispettivamente nelle parti di Antoni Seche, babbo dell’autore del libro, Angelina Loi e Roffelle Ozanu.
L’opera teatrale messa in scena a Magomadas, è solo l’ultima testimonianza di quanto fervore culturale ci sia in seno alla comunità del piccolo grande centro della Planargia. Tutti i paesi della Sardegna, alla pari delle città, sono capitali di identità proprie, dall’arte alla cultura, dalle tradizioni alla loro storia. Sono patrimoni inestimabili che vanno tutelati e sostenuti proprio in quanto identitari di un popolo e senza i quali lo stesso popolo finirebbe di esistere. Perché ciò non accada, la forza decisiva sarà sempre quel grido di ”Forza Paris” che ci tiene uniti in un unico intento: il bene della Sardegna e della sua gente.