Intorno alle 19.20 di ieri, il segretario del Pd Pierluigi Bersani esce dallo studio del Presidente della Repubblica  con la faccia terrea, visibilmente deluso e amareggiato per il fallimento del suo tentativo di formare un nuovo governo. Ora sarà il Capo dello Stato a occuparsi “direttamente e senza indugio” di uno dei momenti più difficili della storia repubblicana.

 

 

Ci troviamo di fronte all’uomo giusto, forse il solo, oggi, in grado di mettere i paletti più idonei per indicare la via d’uscita in una situazione di involuzione politica ed economica senza precedenti. Fortuna vuole che la persona di cui in questi momenti l’Italia ha bisogno sia anche al posto giusto nel momento giusto. Non farà miracoli, non potrebbe farli e non glieli pretendiamo.

Stavolta saranno finalmente, si spera, la sua esperienza politica impareggiabile e la sua saggezza, oltre naturalmente al suo ruolo, spesso inascoltati, a costituire l’elemento decisivo per poter dare al Paese un nuovo Governo. Questo è quanto ci auguriamo tutti, mai come ora. E "tutti" vuole dire quell’Italia che aspetta senza più respiro il lavoro per i giovani e il sollievo di chi non sopravvive più per le tasse che strozzano senza fine.

Al contrario, però, se ci voltiamo per vedere cosa sta succedendo in questi momenti tra i partiti politici  delegati dagli elettori per darsi e darci un governo e iniziare a risolvere subito i problemi del Paese, la certezza, non l’impressione, è quella di trovarci davanti a tre Italie: una per ciascuno dei maggiori schieramenti politici. Infatti, ognuno di essi si porta appresso nelle trattative per formare un nuovo governo la “propria” Italia, corrispondente, declamandone consistenza e pretese, al totale dei voti avuti dagli elettori.

Ecco, sul tavolo delle trattative tre ali del Parlamento si confrontano con queste condizioni di partenza.  Con  le stesse tre ali, elettoralmente equidistanti,  non si riesce, però,  o non  si vuole volare: si resta a terra, sulle sabbie mobili, pronti a sprofondare; ma non la classe politica, bensì soltanto il popolo messo ai margini da chi dopo il voto dimentica subito la provenienza del suffragio ricevuto alle urne. Ciò è l’assurdo di un fenomeno tutto italiano.

Non solo, ma allo stesso popolo, in particolare agli elettori, è attribuita anche la colpa di non aver dato un indirizzo unitario e compatto, verso l’uno o verso l’altro schieramento (ovviamente ogni partito parla per sé) alla propria espressione di voto. Insomma, mai come stavolta, “cornuti  e mazziati”. Naturalmente, parlare in questo contesto di nominati della politica e di candidati non scelti dall’elettore, nonché di una di legge elettorale indegna e  volutamente ambigua, vuole dire affrontare una partita persa prima di iniziarla.                                                                                      

Il presidente Giorgio Napolitano ha visto nascere la Carta Costituzionale che ha consegnato al nostro Paese un sistema democratico di governo con una forma repubblicana che riassume, tutela e difende i diritti, a partire da quelli naturali, dell’uomo e del cittadino. Chi più di lui, della persona del Capo dello Stato, può richiamare i valori unitari e indissolubili della nostra Costituzione davanti a coloro che sin dalla mattinata di oggi gli staranno davanti per un ennesimo, si spera ultimo, giro di consultazioni.

Spostare i fari della politica sullo spirito che ha animato i padri costituenti nel dare vita alla nostra Carta  fondamentale, non sarà facile per Napolitano: volontà diverse e contrastanti ne distolgono l’attenzione. Neanche il pessimismo, però, porta bene. Non ci resta che credere, più che nei miracoli, in un sussulto di coscienza, di saggezza e di responsabilità  da parte di chi non può più credere che ci siano non tr