"Gli abbiamo detto: “per Pasqua ti portiamo l'uovo”. Ma lui ha risposto: “mamma che dici? Io a Pasqua sono a casa, con voi”. E adesso chi glielo dice a questo ragazzino?".

Roberto Pinna, il padre di Paolo Enrico, condannato dal tribunale dei minori a vent'anni per l'omicidio di Gianluca Monni e Stefano Masala, questa volta si sfoga. Aspetta che vadano via tutti. Anche i due legali che assistono il ragazzo, Agostinangelo Marras e Angelo Merlini.

"Aspettiamo le motivazioni, voglio proprio vedere cosa scrive questo giudice", dice l'uomo. "Non siamo noi a dirlo, ma le carte che ci sono state messe a disposizione - afferma - oggi è stato sconfessato il lavoro dei carabinieri".

Perché secondo Roberto Pinna "sono loro che hanno detto che Stefano Masala era a Orune, in quella macchina, e sono loro che hanno detto che i cani molecolari l'hanno individuato anche dopo quell'omicidio, anche in paese".

Glaciale, fiero, si rivolge ai giornalisti. "Scrivetele queste cose". E ancora. "Questa sentenza ce l'aspettavamo, d'altronde se non l'avessero condannato sarebbe crollato anche il processo di Nuoro, dovete scrivere anche questo", dice il babbo del condannato. Insieme a Paolo Enrico Pinna, minorenne all'epoca dei fatti, è accusato il cugino Alberto Cubeddu, di Ozieri.

La Procura di Nuoro ha chiuso l'indagine a suo carico e lo indica come esecutore materiale dell'uccisione di Monni. Presto il gip dovrà decidere se rinviarlo o meno a giudizio.

"Per un anno e mezzo hanno pressato questi ragazzi sperando che dicessero qualcosa, ma non possono dire niente perché non sanno niente, mio figlio non c'entra - è la sua convinzione - cercano di utilizzare i litigi e le discussioni che il ragazzo ha avuto con me e con la mamma, ma è normale, da bravi genitori quali siamo ci preoccupavamo della situazione, di quello che la gente diceva, volevamo venirne a capo prima di finire qui".

Solo a questo punto Roberto Pinna ha un istante di debolezza. L'emozione gli rompe la voce, ma è solo un passaggio, poi riprende. "Certo che andremo in appello, e anche in Cassazione se sarà il caso, e se non bastano due avvocati ce ne saranno quattro, perché siamo innocenti", ribadisce l'uomo caricandosi il peso di una condanna lunga più degli anni che il figlio ha compiuto da poco.

"Questo processo andava fatto a Roma, qui c'era troppa pressione, l'opinione pubblica aveva già deciso - è l'accusa - quel ragazzo scomparso, la disperazione dei familiari, ma nessuno ci pensa a questo ragazzino in carcere". Perché Paolo Enrico "ora sta crescendo, ma è un ragazzino, e quando c'è stata quella rissa puzzolente aveva sedici anni appena". Il riferimento è a quanto avvenuto il giorno dell'autunno 2014 in cui a Orune si celebravano le "Cortes Apertas".

Per l'accusa, e da oggi anche per il tribunale dei minori di Sassari, l'omicidio di Gianluca Monni sarebbe stato meditato, architettato ed eseguito per vendicare l'affronto di quella sera. "Andremo in appello, e se questo giudice ci ha dato torto, altri ci daranno ragione", conclude il papà di Paolo Enrico.

Al suo fianco la moglie e la figlia annuiscono. La ragazza piange, ha un leggero malore, la moglie lo invita ad andare via. Roberto parlerebbe ancora a lungo, ma accompagna le due donne con lo sguardo, le lascia allontanare e dice solo un'ultima frase. "Adesso chi glielo dice al ragazzo, che ci chiede sempre: 'ma perché sono in carcere da dieci mesi se non ho fatto nulla?'".