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Uno dei tre aveva chiuso i battenti qualche anno fa, gli altri due hanno atteso il 31 dicembre 2014 per restituire allo stato i loro registri di partita iva. Sono i laboratori che, sino a qualche giorno or sono realizzavano, con le mani sapienti dei loro addetti, i dolci tipici di Ovodda apprezzati in ogni dove per la loro qualità.
Un gusto unico, inimitabile anche dai migliori pasticceri di città lontane. Io personalmente, dopo averli regalati, ho ricevuto apprezzamenti per queste bontà da buongustai di diverse città d'Italia: da Cagliari a Milano, da Bergamo a Palermo, da Sassari a Roma e dintorni.
Sarebbe ingiusto anche solo confonderli con quelli prodotti in altri paesi sardi, dai quali si differenziano per il gusto sopraffino. Un vero orgasmo per il palato, originato dagli ingredienti scelti solo tra le migliori qualità di frutta secca esistente in commercio. Ma anche dal tipo di lavorazione: completamente manuale. Amaretti, “pistiddi”, “pastinas”, “puzzoneddos”, “marigossosso”, sono tutti nomi delle volte comuni a quelli prodotti in altre località. Ma se il nome è uguale o simile, la qualità proprio no.
Lo zucchero che solitamente la fa da padrone, diventa un ingrediente secondario rispetto alla frutta secca ed al miele, usati senza parsimonia da questi artisti dolciari che, alla fine dell'anno appena trascorso, hanno gettato la spugna. Stanchi della sempre più stringente tenaglia delle imposte che opprimono gli artigiani e più in generale, le piccole medie imprese. La crisi si sussegue al ritmo incessante del suono di fanfara delle gabelle che ogni giorno suonano alla porta. I clienti oppressi a loro volta dalle cartelle da pagare rinunciano al dolce, ritenendolo superfluo per la tavola imbandita.
La chiusura dei laboratori dolciari ovoddesi la si può proiettare per rappresentare un contesto più generale. Non possiamo infatti credere che sia solo un isolato problema che affligge la piccola comunità barbaricina, ma piuttosto un fenomeno che coinvolge tutta l'Italia, isole comprese. Le imposte a carico delle imprese, cosi come i pesanti balzelli che soffocano il mercato immobiliare, contribuiscono non poco alla moria di piccole attività artigianali e commerciali a cui assistiamo già da diversi anni.
Neppure la storia ha insegnato nulla ai nostri politicanti di razza. E dire che i libri sono pieni zeppi di esempi per i quali, quando si parla di tasse e gabelle, il risultato è disastroso. A cominciare dal periodo medievale dove si pagavano gabelle in ogni dove, anche solo per attraversare la strada. Passando dal Domesday Book anglosassone, una sorta di registro del catasto, che serviva agli sceriffi inglesi per dissanguare chiunque possedesse anche un piccolo fazzoletto di terra o qualche gallina. Anche questa oggetto di tassazione esagerata.
Il terribile sceriffo di Nottingham incontrò Robin Hood sulla sua strada, ma leggende escluse, la storia è sempre finita male per il popolino. Costretto sempre a sputare sangue per favorire i lussi sfrenati e i privilegi dei potenti, indifferenti davanti all'indigenza dei più. La stessa rivoluzione francese ha origine da una fotocopia della storia: popolo alla fame, nobili sazi fino al midollo.
In epoca romana, l'imperatore Diocleziano impose una riforma fiscale per sostenere le spese militari necessarie a difendere i vastissimi confini dell'impero. La riforma, cosi oppressiva, divenne letale per quello che viene considerato il modello del tipico romano nel periodo classico: il piccolo proprietario. Colui il quale possedeva un piccolo fondo che gli permetteva la sussistenza senza dipendenza alcuna, il che significava: dignità e libertà.
Il piccolo proprietario, a seguito della riforma, dovette allora cercare protezione dal grande latifondista, annettendo il suo piccolo podere a quello più vasto del ricco proprietario, il quale poteva permettersi di trattare con lo stato per ottenere uno sconto sulle tasse da pagare. Il risultato fu devastante: quelli che qualche anno più tardi verranno annoverati nella cl