E' alla ribalta delle cronache la notizia per la quale i militari italiani di stanza a Nassiriya nel 2003 perpetravano ogni tipo di tortura su prigionieri iracheni. Peccato però che il programma delle Iene, che ha mandato in onda il servizio, abbia frettolosamente tralasciato di chiarire che le immagini proposte non sono relative all'Iraq, ma alla Somalia.

Una missione, quest'ultima, denominata UNOSOM e intrapresa dai caschi blu dell'ONU diversi anni prima di quella irachena. La questione della Somalia, è pur vero, considerata un caso scuola laddove si voglia spiegare il significato di “Rappresaglia”.

La crudeltà usata in quell'occasione era sicuramente stata deplorevole, tant'è che è stata stigmatizzata dallo stesso Consiglio di Sicurezza in una risoluzione successiva.  La verità storica merita però un approfondimento che solo chi lo ha vissuto può raccontarci: “Le donne somale insieme ai loro bambini venivano costrette a camminare in parata davanti ai loro uomini che da dietro sparavano contro i nostri soldati, impossibilitati a reagire”, riferisce un ex combattente di quel teatro di guerra.

Sottomessi ai signori della guerra somali, tali mariti, oltre essere codardi non potevano non aspettarsi una reazione a dir poco comprensibile, se pur posticipata per non colpire donne e bambini. Capisco di esprimere parole forti, ma sono dettate dall'immedesimarsi nella realtà dei fatti e nella paura che vivere un esperienza del genere infonde. Un qualcosa che non si può comprendere se si resta davanti alla TV o ai giornali volendone pure fare la morale a chi direttamente la vive. 

Il programma di Italia Uno dello scorso mercoledì notte inoltre presenta altre incongruenze: vi pare possibile che il sedicente appartenente alla “Brigata Sassari” non voglia farsi riprendere dalle telecamere, però poi rivela il ruolo che aveva in quella precisa missione? Un ruolo che a suo dire era talmente delicato che certo non può essere stato coperto da troppi soldati, ma solo da pochi e per tale motivo facilmente identificabili. Altra sparata che sembrerebbe un idea di Collodi, i 260 milioni di euro stanziati dall'Italia e mai spesi in Iraq.

Senza voler negare eventuali responsabilità di loschi individui senza scrupoli, che nei passaggi avrebbero anche potuto sottrarre qualcosa alla giusta destinazione, sembra però alquanto strano, oltre che ingiusto nei confronti di chi invece si impegna onestamente, che nulla sia stato fatto cosi come il sedicente militare, “so tutto io”, afferma. Una situazione facilmente verificabile rispetto alla quale gli stessi operatori sanitari italiani ne hanno sempre riferito in maniera completamente diversa.

In tutto questo si intravede la voglia di un giornalismo d'assalto per fare notizia costi quel che costi. Uno stile che a noi non piace perché nasconde i veri meriti di persone che nel silenzio quotidiano raggiungono territori inospitali portando un pochino di sostegno a popolazioni le quali sono spesso calpestate e sottomesse dai loro stessi governanti e speculatori senza scrupoli.

Tali persone sono i nostri soldati, per i quali spesso si favoleggia siano pagati cifre da capogiro e che vivano in alberghi di lusso durante le missioni. La realtà un pochino più dura è che tali cifre sono nettamente più alla portata di un qualsiasi “tassinaro” de Roma o di Cagliari e decisamente inferiori ad un qualsiasi presidente di una sconosciuta “Comunità Montana” italiana. Con la differenza che questi ragazzi non stanno in mezzo al traffico cittadino o meglio seduti in calde poltrone pagate profumatamente dall'ente, ma lasciano le loro famiglie per 6 o 7 mesi l'anno per andare a lavorare in territori inospitali sia dal punto di vista del territorio, del clima e spesso di una parte della popolazione più estremista. In quei periodi vivono in tende neppure tanto grandi, con un gruppo elettrogeno per alimentare una radio in modo tale da non stare isolati.

Pavimenti inesistenti, frigoriferi manco a parlarne, cibo in scatola per 5 giorni la settimana, giubbotti per sca