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Siamo a Valencia, Plaça del Baró de Cortés, di fronte al Mercado de Ruzafa, che prende il nome dall’omonimo barrio. Qua, all’incrocio con Carrer Mossèn Femenia, si trova “Improntas, cucina tipica di Sardegna”. All’esterno del locale una folta schiera di tavolini attira l’attenzione dei passanti, in un’area spaziosa che lambisce le due strade. All’interno modernità e tradizione si fondono, creando un ambiente dallo stile variegato: la parete e il pilastro spogli, in mattone, contrastano il resto della sala; mura dalle sfumature e pennellate cenerine, luci soffuse che illuminano i tavoli in un ambiente intimo e accogliente, e poi l’elegante insegna oro e nera che, sotto il logo, sembra sintetizzare perfettamente quella che è la filosofia del ristorante: “No existe modernidad sin una buena tradición”. Ad arricchire la sala un paio di quadri che raccontano di “casa”; uno raffigura una donna mentre lavora dei filindeus (pasta tipica barbaricina), nell'altro due mani raccolgono e mostrano alla camera della fregola appena preparata. Esposta, di fianco a una parete, una vasta selezione di vini, numerosi di provenienza sarda.
Ad accoglierci nel grazioso locale è Salvatorina Fresi, 44 anni, madre di Samuele, cuoca e proprietaria del ristorante. Nata e cresciuta a Montresta, piccolo centro in provincia di Oristano, ha viaggiato in giro per il mondo, prima di stabilizzarsi a Valencia per dar vita a Improntas. Una storia che parte quindi, come tutte, dalle radici e dai ricordi di infanzia: “La mia – racconta a Sardegna Live – è stata un’infanzia bellissima, in un paesino tranquillo”. Ma anche dai dolori e dai traumi, e tutto ciò che ne consegue: “All’età di 14 anni ho perso mio padre, e da lì la mia vita è completamente cambiata. Era lui che sosteneva la famiglia e portava da mangiare a casa. Ho dovuto iniziare a lavorare, e inizialmente sono rimasta a Montresta dove aiutavo mia mamma a pulire case e scuole. Dopo di che mi presentarono a una famiglia di Bosa che gestiva un hotel: così è iniziata la mia storia nella ristorazione”.
E’ la prima tappa di un lungo viaggio: “Sono andata a lavorare a Bosa, poi, per necessità, ho iniziato a fare le stagioni: è diventata una routine che, col tempo, è cresciuta, diventando una passione, e io volevo di più – ricorda –. Ho lavorato a Porto Cervo, Villasimius, poi mi sono spostata nel nord Italia: Jesolo, Livigno, Moena, Dolomiti. Ma tutto ciò mi stava stretto. Sentivo di fare un lavoro che non era gratificato, non tanto economicamente, se non piuttosto personalmente. Volevo conoscere e scoprire. Nel 2005 ebbi una eccellente occasione: conobbi una persona che mi propose di andare negli Stati Uniti per lavorare in un ristorante a San Francisco. Non parlavo inglese. Quando arrivammo mi reputavo già una professionista, perché avevo lavorato per tanti anni e il mio lavoro mi piaceva, quindi non vedevo la barriera della lingua. Ho imparato l’inglese praticamente nel giro di quattro mesi, perché avevo la necessità. Avevo un diario in cui annotavo quante parole imparare al giorno. Dopo quattro mesi tornai in Italia, ma l’America mi rimase nel cuore”.
Troppo forte il richiamo di quel mondo distante, dopo la breve esperienza a San Francisco: “Sono ripartita da sola, a San Diego. Mi avevano fatto una proposta, ma è andata malissimo. Quindi ho attraversato mezza California in bus: da San Diego sono tornata a San Francisco, dove stavo bene. Arrivai con 20 dollari perché dove lavoravo non mi pagavano, e a mie spese avevo affitto, cibo e taxi per andare al lavoro. Tornai nel ristorante dove avevo lavorato in precedenza e chiesi al titolare di poter fare un weekend con loro. Un’amica mi ospitò a casa sua. In un fine settimana guadagnai 600 dollari, e da lì iniziai a cercare un appartamento. Lo trovai, condiviso con 5-6 persone, tutte italiane. Qui conobbi una ragazza di Milano che doveva rientrare in Italia: presi il suo posto nel ristorante in cui lavorava. Ci stetti per 4 anni. Mi concessero lo Student Visa, andavo a scuola quattro volte a settimana, in un’accademia di inglese, mentre la sera lavoravo”.
Un amore a stelle e strisce e un cambio radicale: “Mi sono innamorata degli Usa, sono stata lì per 6-7 anni. Dopo di che ricevetti una proposta di lavoro sulle navi da crociera di lusso. In quel momento stavo molto bene professionalmente: guadagnavo tantissimo, mi pagavo gli studi, aiutavo mia mamma. Alla fine accettai quella proposta: rientrai in Italia e dopo tre mesi di preparazione ho iniziato a lavorare, nel 2011, per la Celebrity Cruises Line, una multinazionale di navi da crociera americane. Qua lo sfruttamento non esiste: entrai come una semplice assistente-cameriera e dopo un mese e mezzo ero una supervisora. Nel giro di un paio di anni ho ricevuto una serie di promozioni, e ho iniziato a sentire che gli sforzi e le decisioni prese mi stavano ripagando. Anche lì guadagnavo tanto. Fino al 2014...”.
Ogni storia che si rispetti è fatta anche di incontri, e di persone che ci cambiano la vita, come nel caso di Salvatorina: “Quell’anno incontrai Francisco, il mio attuale compagno. E’ colombiano, di Barranquilla; lavorava come cuoco, io gestivo tutti i ristoranti speciali a bordo. E’ una persona molto interessante, intelligente, ha letto tantissimo: un’enciclopedia vivente. Ci innamorammo. Io stavo molto bene sulle navi, ma Francisco no: per lui era un periodo di transizione. Alla fine decidemmo di sistemarci sulla terraferma per fare una famiglia. Ho iniziato una ricerca di mercato: non volevo tornare in Italia, un sistema burocraticamente troppo complicato, e volevo aprire un ristorante. Durante le mie ricerche veniva sempre fuori Valencia, e alla fine, il 16 agosto del 2016, siamo venuti qua. Siamo andati in giro per la città, a mangiare in tutti i quartieri, per cercare di scegliere quello giusto. La mia intenzione era, avendo girato il mondo, di aprire un ristorante fusion, mischiare sapori, profumi, culture. L’idea di aprire il ristorante sardo è stata di Francisco; lo portai un mese in Sardegna, a casa, e rimase rapito dai nostri sapori: ‘Non ho mai provato una cucina buona come la vostra’, mi disse. Avevo un po’ di paura, perché qua a Valencia non c’erano ristoranti sardi, e nessuno conosceva la nostra cucina, temevo potesse non piacere. Mi sbagliavo”.
In pochi mesi è decollato il progetto: “Si chiama ‘Improntas’ perché racconta la mia storia: molti dei piatti sono della mia famiglia. Cerchiamo di raccontare la Sardegna con la nostra cucina. La nostra terra ha una gastronomia unica; ricerco, studio, tutte le settimane arrivo con una pasta nuova: i culurgiones, gli spizzulus, i malloreddus, i gravellus. C’è tantissimo da raccontare. E’ un privilegio nascere in un’isola, perché deve togliere tutta la sua forza per sopravvivere e brillare”. Non esiste un solo segreto per avere successo nel proprio mestiere, ma sicuramente contribuiscono numerosi fattori: “Innanzitutto bisogna amare questo lavoro, altrimenti ti distrugge, e – sottolinea – bisogna farlo completamente sani: zero vizi. Purtroppo questo è un problema reale, che ha dato al mondo della cucina una cattiva reputazione. Fondamentale, poi, non si deve mai perdere l’umiltà. Bisogna continuare a raccontare con la stessa passione di quando si ha iniziato. La cosa più difficile è rimanere costanti nel tempo. Poi c’è la qualità: non si può prendere in giro il cliente, perché se ne accorge. Se inizi facendo una fregola abbondante, non puoi arrivare dopo cinque anni e diminuire la fregola, facendo una mini-porzione, magari con ingredienti surgelati. Vuoi aumentare i prezzi? Io preferisco farlo, quando il prodotto è caro, ma non abbassare la qualità, né le porzioni. C’è differenza fra fagocitare e mangiare: noi vogliamo che il cliente che viene a Improntas lo faccia per vivere un’esperienza. Qua ci si deve sentire in Sardegna, a casa mia, a Montresta, dove mia mamma sta cucinando. Il cliente viene qui per mangiare la fregola fatta a mano da mia nonna di 91 anni. Mia madre lavora qua con me”.
Gestire un ristorante di successo, nel quartiere più eclettico e trendy di una delle città più importanti della Spagna, comporta certo alti standard e professionalità. Dietro tutto ciò c’è una squadra di cucina da gestire e, nella sua, Salvatorina può contare anche sulle conoscenze di Francisco. Amore e lavoro: un mix esplosivo, talvolta. La chef, nel raccontarci la sua esperienza, spiega quanto sia complicato dover condividere col compagno anche la vita professionale: “Quando l’ho conosciuto, mi sono innamorata di lui perché è praticamente l’opposto di ciò che sono io. Lui è super calmo, un colombiano atipico: astemio, non esce, vivrebbe in casa con la sua famiglia tutti i giorni. E’ molto familiare. Per questo in Sardegna ha incontrato qualcosa che non ha mai avuto. Io vengo da una famiglia molto unita, ma sono una ‘latina’, una ‘fiestera’, mi piace tanto uscire. Tutto ciò mi piaceva, prima che le nostre personalità si confrontassero sul lavoro: terribile (ride, ndr), non auguro a nessuno di lavorare col proprio compagno. Ci scanniamo. Io sul lavoro sono molto disciplinata, un comandante, ho troppo rispetto per questo mestiere, mi ha salvata. Quando ero giovane sono stata molto male fisicamente, questo lavoro mi ha dato una nuova vita. Francisco, latino-americano, è il classico ‘quello che non si può fare oggi lo facciamo domani, anche dopodomani’. Però – precisa – ha una cosa che io non ho: è un super amministratore. Essendo figlio di avvocati, praticamente già da bambino lo mandavano a fare commissioni e gli affidavano compiti riguardanti quel settore. Riesce a gestire tutto ciò di cui io non saprei occuparmi: è perfetto su questo. Tutto ciò che concerne l’ambito economico lo gestisce lui. E’ un disastro come cameriere, è super disordinato: non ha il senso dell’urgenza e dell’ordine, è ritardatario, a volte gli tirerei i piatti in testa. Tante volte ho mollato tutto e me ne sono andata. Il fatto che io sia esecutiva e lui amministratore mantiene l’equilibrio. Gli sto consigliando di aprire un’impresa di consulenza, perché è un genio”.
Francisco, oltre che ottimo amministratore, si porta dietro anche importanti esperienze come cuoco: “Ha lavorato in ristoranti rinomatissimi, in Colombia o con chef francesi. Mi ha insegnato la tecnica, piuttosto distante dal nostro tipo di cucina, tutta sapori e abbondanza. In questo senso mi ha influenzato, ma non ha contaminato i miei sapori. Io studio tantissimo, ricerco, ma tengo sempre intatta la tradizione. Per fare un esempio: la base sono i culurgiones, io li propongo coi fiori di zucca e bottarga, o la burrata”.
Oggi, Salvatorina porta con sé un grande bagaglio di esperienze, dovuto al contatto con persone e terre distanti. Alla domanda su chi sia il suo modello o se esista qualcuno da cui trae ispirazione, risponde: “Più che le persone mi ispirano i luoghi, le relazioni, le culture. Ho molta ammirazione per tante persone, prendo ispirazione per dei piatti, ma non cerco mai di riprodurre”. E svela: “Inoltre, credo di aver inventato un piatto: gli spaghetti alle orziadas (anemoni di mare). Come concetto, sono esattamente come quelli ai ricci. E’ un piatto che ho provato e inventato. Credo - spero di non offendere nessuno - che in Sardegna le anemoni non siano abbastanza valorizzate. Le squaglio con l’olio e quando scolo la pasta viene fuori una crema ancora più buona di quella con i ricci. Mi piacerebbe che questa ricetta venga riconosciuta, ho provato a farla ‘patentare’, ma per il momento non ci sono riuscita”. E il piatto forte? Salvatorina, senza mezzi termini, risponde: “Non penso che qualcuno faccia gli spaghetti vongole e bottarga meglio di me. Ma anche i culurgiones, sempre vongole e bottarga. La fregola la faccio buonissima, ma devo ringraziare mia nonna che me la spedisce dalla Sardegna”.
Il menù prevede anche un’ampia proposta di vini: “Purtroppo ho avuto difficoltà con i produttori. Mi piacerebbe portare prodotti delle piccole aziende, produzioni a livello locale. Qua i vini consigliati sono i nostri: per il rosso il cannonau e per il bianco il vermentino, a meno che non vi siano delle richieste particolari. Alla fine, quelli sardi sono i più venduti. Ma, ripeto, mi piacerebbe avere una carta dei vini sardi più ampia”. Anche i formaggi: “Molti li compro dai pastori del mio paese”.
Tra le altre cose, quest’anno Salvatorina e il suo staff hanno partecipato a “Little Big Italy”, celebre programma condotto da Francesco Panella, ristoratore e imprenditore romano che viaggia per le città del mondo in cui vivono grandi comunità di immigrati italiani. In ognuna di esse visita tre ristoranti che offrono cucina del Bel Paese e tenta di stabilire quale sia il migliore. Ci racconta, in conclusione: “Le riprese sono già terminate, e l’esito è già stato comunicato, ma ancora non lo possiamo svelare. Le puntate andranno infatti in onda ad ottobre. E’ stata un’esperienza meravigliosa. Dal primo momento che ci hanno comunicato che eravamo uno dei ristoranti potenzialmente partecipanti è stata una grande emozione. Seguo il programma da tanto tempo. Sono stati tre-quattro mesi di tensione ed emozioni”. E ci lascia con una curiosità: “Il ristorante vincitore a San Diego è quello in cui lavoravo”. Sarà riuscita l’esperta chef isolana a fare il bis? Noi lo sappiamo; voi potrete scoprirlo, ad ottobre, nel doppio appuntamento all'insegna della grande cucina italiana (e sarda) nel mondo.